PROLOGO:
Primi anni ’60: nascono i più coraggiosi esploratori delle nuove frontiere del rock: i Pink Floyd. Pionieri della psichedelica e tra i massimi complessi rock di sempre.
Nel corso di una carriera lunghissima in cui distinguiamo almeno 3 fasi, hanno toccato i limiti del pop e del rock, sposando l’elettronica ed approfondendo la ricerca sonora in una serie di album giudicati pietre miliari della musica del Novecento.
STORIA:
Il mito Pink Floyd nasce nel 1967: ben 48 anni fa.
Un mito mai tramontato, anzi, ancora oggi sulla cresta dell’onda, amato e seguito da almeno 3 generazioni.
Tutte le fasi della loro carriera sono, per un verso o per l’altro, semplicemente meravigliose.
Figli ed allo stesso tempo padri del movimento psichedelico inglese, i giovani Pink Floyd destabilizzano l’ambiente underground londinese con sonorità spaziali e giochi di luci.
Roger Waters (basso e voce), Richard Wright (tastiere), Dave Mason (batteria) e Syd Barrett (chitarra e voce), ne sono i fondatori.
FASE 1 – BARRETT:
“The piper at the gates of dawn” è il primo capolavoro.
Un capolavoro della musica pop moderna, caratterizzato da sonorità rivoluzionarie che fin da subito ribaltano quel concetto che abbiamo di <<canzone>>.
L’ascoltatore percepisce continuamente note devianti ed il principale protagonista è proprio Syd Barrett, personaggio bizzarro ed imprevedibile, che ci consegna perle inestimabili quali “Astronomy domine” e “Interstellar overdrive”.
Syd Barrett è perso a rincorrere i fantasmi provocati dall’abuso di allucinogeni ed un tale David Gilmour è chiamato dapprima ad avvicendarlo (dividendosi con Barrett la titolarità della prima chitarra), poi, come vedremo, sempre più a sostituirlo.
“A saucerful of secrets” è il secondo LP ed ha un carattere ed un rock altamente sperimentale.
Qui l’impatto che percepiamo ad ogni ascolto, è semplicemente notevole.
Impressionante poi il saluto di Barrett, in chiusura, con la sconvolgente “Jugband blues”.
“More”, del 1969, è la colonna sonora del film omonimo, sicuramente meno nota rispetto ai 2 precedenti lavori, che avrebbe meritato ben altra considerazione.
Qui si passa dalla stralunata magia di “The Nile song” alle atmosfere leggiadre di “Circus minor”.
Ma il 1969 è anche l’anno di “Ummagumma”, un doppio LP.
Il 1° disco è un live in cui viene testimoniata l’esigenza del gruppo di suonare dal vivo (non senza effetti sonori, luci stroboscopiche, immagini allucinogene) la loro musica cosmica dai contorni indefiniti dove spiccano una versione particolarissima di “Set the controls for the heart of the sun” e l’inedita “Careful with that axe Eugene”.
Il 2° disco è frutto di lunghe improvvisazioni, con i 4 musicisti alle prese con 1 brano a testa.
In definitiva “Ummagumma” è un lavoro che raccoglie il successo di critica e pubblico, ridisegnando i confini del rock del momento.
FASE 2 – WATERS:
“Atom heart mother” arriva in un istante al primo posto delle classifiche.
Il suono rispetto a prima sembra più ricercato nel lato B, dove “If”, “Summer 68” e “Rise and shine” mostrano un volto più sereno rispetto al passato.
La suite che intitola il disco copre l’intero lato A, confermando invece, il coraggio del recente passato.
“Meddle” del 1971, è un altro album importante, dove melodia e sperimentazione trovano la stessa collocazione.
“One of these days” è la sintesi del nuovo stile del gruppo: una traccia che cattura ad ogni ascolto, dove uno strumento solitamente poco protagonista come il basso, la fa da padrone, entrando dentro l’ascoltatore e coinvolgendolo come non mai.
“Echoes”, poi, è semplicemente intensa e spettacolare.
Dopo un’altra colonna sonora (“Obscured by clouds” per il film <<La Vallée>>) poco degna di nota, è la volta di un altro capolavoro.
E’ il 1973 ed è l’anno del lato oscuro della luna.
“The dark side of the moon” è un’opera talmente bella ed importante, che basterebbe anche il solo crescendo vocale di “The great gig in the sky” per giustificare decenni di presenza in classifica e record su record, letteralmente frantumati.
Ma non è tutto qui. “The Dark side of the moon” è musica rivoluzionaria; è una ricerca maniacale del dettaglio; e soprattutto una serie di canzoni straordinarie che a chiamarle opere, neanche si sbaglierebbe più di tanto.
Se ora, mentre scrivo, mi alzassi e andassi a prendere il disco per elencare tutte le tracce presenti, troverei qualcosa di estremamente positivo da scrivere, per ognuna di queste.
Così mi limito a citare “Speak to me”, “Money”, “Any colour you like”, “Us and them”.
Si tratta di un album epocale, registrato ai famosi Abbey Road Studios e che, oltretutto, ha anche il merito di lanciare il giovane ingegnere del suono Alan Parsons, future stella del pop rock.
E siamo al 1975. “Wish you were here” è un inno splendido, dedicato a Syd Barrett, ormai da tempo vittima di allucinogeni.
Ma è un lavoro (con una copertina ancora una volta sensazionale) dove spicca anche “Shine on you crazy diamond”, docile acquerello acustico.
“Animals” (1977) è un album che soffre la bocciatura della critica.
Personalmente, trovo che sia, invece, un lavoro pieno di suoni ed effetti interessanti.
“Pigs on the wing”, “Dogs” e “Sheep” sono canzoni pervase da fascino e concretezza.
Come asserire il contrario?
Al termine degli anni ’70 (nel ’79 per l’esattezza) scoppia una nuova bomba e si chiama “The wall”.
Uno degli ultimi capolavori degli anni ’70 che vanta anche una famosissima trasposizione cinematografica.
Prima di approdare alla banalità degli anni ’80, il gruppo crea un doppio album folle e visionario, frutto dell’instabilità di Roger Waters, che rilegge le paure dell’uomo moderno (“The happiest days of our lives”) e le trasmette con un suono drammatico (“The thin ice”, “Run like hell”, “The trial”), con melodie per certi versi spigolose e claustrofobiche.
Le perle più note sono “Another brick in the wall”, “Hey you”, “Vera”; e ancora “Mother”, “Goodbye blue sky” e “Confortably numb”.
Come non considerarlo un capolavoro?
La sbornia di “The wall” porta a 4 anni di silenzio e, soprattutto, ad un ritorno alquanto deludente.
“The final cut” è un disco privo di sussulti che ferisce i fan di vecchia data, assolutamente increduli davanti a tanta pochezza.
E anche se le critiche sono feroci, il successo è, ancora una volta, immenso.
La scintilla che scatta nella mente di Waters per l’ideazione e la realizzazione di “The final cut” è la guerra per le isole Falkland.
Quel titolo però sembra profetico, visto che siamo all’alba dell’ennesima epoca.
FASE 3 – GILMOUR:
Rogers abbandona la nave e Gilmour assume il comando, portando la band verso un rock che
piace, con arrangiamenti fantasiosi a cui contribuisono Mason ed il rientrante Wright.
Quando esce “A momentary lapse of reason” si ha subito la percezione che le canzone in esso contenute siano pervase da ottime melodie: “Learning to fly”, “The dogs of war”, “Signs of life” ne sono un esempio.
Arrivati al 1988, i Pink Floyd partono per un tour mondiale che somiglia più ad uno spettacolo circense da cui nasce un doppio CD live: “The delicate sound of thunder”.
Animali gonfiabili giganti, giochi di luci stellari per un risultato che definirei, comunque, <<freddino>>.
Decisamente meglio, ben 6 anni dopo, il nuovo lavoro registrato in studio.
“The division bell” è un album senza particolari pretese, capace però di soddisfare vecchi e nuovi fans, dove già la sola “High hopes” (canzone finale della durata di poco meno di 10 minuti), varrebbe, come si suol dire, <<il prezzo del biglietto>>.
E’ una canzone dalle sonorità meravigliose, dove il rintocco della campana all’inizio ed al termine del brano si lega meravigliosamente con il contesto musicale dello stesso, impreziosendo non poco tutta la traccia.
E, ancora una volta, si ritrovano in testa alle classifiche di mezzo mondo.
E poi? Ancora il tempo di un doppio live d’autore nel ’95 (“Pulse”), fino al silenzio.
E’ il 5 Luglio 2014, quando su internet appare una notizia in grado di scatenare, nel giro di poche ore, le fantasie delle diverse fazioni di appassionati dei Pink Floyd: un nuovo disco è in uscita.
“The endless river” è l’omaggio dichiarato di un gruppo, che di fatto non c’è più, a Richard Wright, pilastro dell’inconfondibile suono floydano, da qualche anno vinto da un male incurabile.
Si tratta di poco più di 50 minuti di materiale riesumato dalle sessioni di “The division bell”, rielaborato da David Gilmour.
Un disco strumentale (una sola traccia cantata) molto bello, in cui si ritrovano ambienti glaciali in “Ebb and flow”; tracce di “Welcome to the machine” e della parte finale di “Shine on you crazy diamond” in “It’s what we do”; ritmi tribali in “Sum”; ancora tracce del passato (“Us and them”) in “Anisina” e un brano come “Allons-y” che potrebbe essere tranquillamente uscito da “The wall”.
In chiusura l’unica traccia cantata, “Louder than words”, il cui testo è opera della signora Gilmour e che pare sia ispirato alle vicende umane del gruppo.
Di questo disco è stato scritto che si tratta di un lavoro ben confezionato, legittimo ed onesto. Bisogna però anche riconoscere che si tratta di un lavoro le cui tracce rappresentano qualcosa di già sentito.
Ma tutto questo rappresenta un’emozione grande.
Scrivere di un gruppo come i Pink Floyd è davvero sensazionale.
Ed è come voler rendere omaggio ad una band monumentale che ha cominciato da pionieri del rock e della psichedelica, passando poi nella fase intermedia a dismettere i panni della band di culto, ma confezionando al tempo stesso album memorabili, per finire un’epopea che nonostante i frequenti dissidi interni e cambi di formazione, risuona nella storia della musica rock più di qualsiasi nostro commento.
di Riccardo Fiori
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