Il bosco, l’imprevisto e lo smarrimento nella selva oscura

bosco foresta

In letteratura uno dei luoghi in cui è più facile scontarsi con l’imprevisto è il bosco. Un luogo impervio, intricato, pieno di ombre e di misteri, ma anche tema letterario legato allo smarrimento psicologico e spirituale. Nel bosco (che possiamo trovare anche sotto forma di selva o di foresta) non ci sono regole né strade tracciate. Tra la vegetazione fitta potrebbe celarsi qualsiasi cosa, si pensi alle favole che fanno dei boschi dimore di streghe e di animali feroci. Ma chi vi si addentra non va solo incontro ai pericoli e agli imprevisti. Abbraccia anche un processo di trasformazione che coincide con la crescita e la purificazione. 

Al livello allegorico infatti, lo smarrimento nel bosco non è altro che la rappresentazione della crisi che l’essere umano attraversa prima di giungere a un cambiamento. Uno degli esempi più illustri è la «selva oscura» che segna l’orrido cominciamento della Commedia dantesca. Somiglia alle foreste della Terra ma appartiene a un territorio inaccessibile all’uomo, quello dell’oltre-vita. Tuttavia Dante compie il suo viaggio nell’Aldilà da vivo e lo fa «Nel mezzo del cammin di nostra vita», ovvero raggiunto l’apice dell’arco della sua esistenza. Nel Convivio il Poeta afferma che la vita di un uomo «perfettamente naturato» è di 70 anni; difatti il suo viaggio inizia nel 1300, a 35 anni d’età.

La crisi e la ricerca della retta via

Accede alla selva in modo passivo, attraverso le nebbie del sonno («Io non so ben ridir com’i v’entrai, tant’era pien di sonno a quel punto la verace via abbandonai»). Prima di lui erano già discesi nell’Ade Orfeo e Enea, ma a differenza loro il Sommo Poeta non va nell’oltretomba a titolo personale, bensì a rappresentanza dell’intero genere umano.  Quando Dante comincia a scrivere la Commedia è già in esilio e la sua crisi esistenziale è specchio di una crisi più grande, che coinvolge i tempi e la società. È per questo che parla del cammin di nostra vita, non del cammin di mia vita. 

L’obiettivo del viaggio è il ritrovamento della verità divina per la salvezza dell’intera umanità: la cosiddetta «retta via» che all’inizio del canto I dell’Inferno viene dichiarata «smarrita». Come scrive Italo Borzi nell’introduzione all’edizione Newton Compton del 2014:«Dante si sente banditore di verità, strumento della giustizia divina destinata ad indicare all’umanità traviata dal cattivo esempio dei pastori [Chiesa e impero] la giusta via del riscatto, debellando i vizi degli uomini, soprattutto la cupidigia, che è il peggiore dei mali».

Fuori dalla selva oscura

Sono questi mali — riassumibili nella parola peccato — che generano lo smarrimento. L’immagine della selva oscura — che è anche «dura», «selvaggia», «aspra», «forte» e così «amara» che solo a ripensarci incute paura — li incarna alla perfezione. Con tutte le sue diramazioni, i suoi rovi e la sua vegetazione incolta è facile errare, sia nel senso di sbagliare che di perdersi. Nessun uomo può uscire vivo da quella selva, eccetto Dante che — eletto da un’entità superiore — a un certo punto se la ritrova alle spalle. 

«E come quei che con lena affannata/uscito fuor del pelago a la riva,/si volge all’acqua perigliosa e guata;/così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,/si volse a retro a rimirar lo passo/che non lasciò già mai persona viva». Al livello allegorico perdersi in un bosco è esattamente come naufragare in mare o ritrovarsi in mezzo al deserto. Solo che in questo caso non basta approdare alla spiaggia o a un’oasi. Una volta superata la selva, appena cominciata l’ascesa al colle che conduce al Paradiso ecco che tre fiere giungono a sbarrare la strada.

La deviazione e il viaggio

«Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,/una lonza leggera e presta molto,/che di pel maculato era converta;/e non mi si partìa dinanzi al volto,/anzi impediva tanto il mio cammino, ch’io fui per ritornare più volte volto». Ci sono diverse teorie sul significato simbolico della lonza, del leone della lupa. La più accreditata è che la lonza (una sorta di lince) rappresenti la lussuria, il leone la superbia e la lupa la cupidigia. Incarnano tre vizi punibili con l’inferno e per Dante sono l’impedimento alla prosecuzione lungo la via della salvezza. Sembra tutto perduto, ma ecco che dal nulla nel «gran diserto» compare un uomo-ombra che si rivela essere Virgilio.

«A te convien tenere altro viaggio» afferma l’autore dell’Eneide. Allora ecco che il percorso subisce la deviazione fondamentale da cui prende il via l’avventura della Commedia e una scalata dai piedi alla vetta di un colle diventa un percorso lungo e tortuoso, disseminato di dannati e beati, anime in via di espiazione, mostri orribili e figure angeliche. Un’avventura sospesa nel tempo e nello spazio, che parte dall’oscurità della selva del peccato e arriva alla contemplazione della luce accecante di Dio, che finalmente dona pace a quel «cor» che all’inizio era tanto smarrito.

Foto di Ståle Freyer da Pixabay

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