I paradossi e le contraddizioni della Brexit

Dopo un tira e molla durato quasi due mesi, martedì 15 gennaio la Camera dei Comuni del Parlamento inglese ha definitivamente bocciato l’accordo e 24 ore dopo la premier Theresa May e il governo da lei presieduto hanno rischiato di essere sfiduciati. La May ha avuto tre giorni di tempo per formulare un piano B da presentare al Parlamento, ai cittadini del Regno e all’Ue. Oggi sapremo cosa ha escogitato.

Gli scenari possibili sono fondamentalmente tre: la rinegoziazione dell’accordo, l’uscita senza accordo (il cosiddetto No-Deal o Hard Brexit) e perfino un nuovo referendum. Dire quali siano le probabilità di queste tre opzioni è un azzardo reso ancor più aleatorio dalla eventualità di una caduta del governo, per sfiducia o dimissioni, e di nuove elezioni. Intanto la data di uscita, prevista per il 29 marzo, si avvicina, e ogni giorno appare sempre più chiaro che le conseguenze di Brexit comporteranno un caro prezzo anche per i 27 paesi dell’Ue. 

Mentre Brexit e le modalità della sua realizzazione restano ostaggio di un parlamento rissoso e con comportamenti al limite della farsa, fuori da Westminster le manifestazioni contro Brexit aumentano nella speranza che venga indetto un nuovo referendum. Ma la politica dei politicanti sembra ignorare le istanze del popolo. Brexit è espressione della crisi della più vecchia democrazia europea, una crisi che potrebbe innescare un effetto-valanga sul resto del vecchio continente.

Probabilmente Brexit slitterà di un paio di mesi, fino alle elezioni europee (26 maggio). Secondo il quotidiano britannico Times potrebbe slittare anche di un anno. Germania e Francia intanto hanno affermato di essere pronte a riprendere il negoziato con il governo di Theresa May. La rinegoziazione dell’accordo è stata però esclusa da Margaritis Schinas, portavoce della Commissione europea. 

In attesa di capire quello che succederà, già oggi si pongono interrogativi inquietanti. Se Brexit slittasse a dopo le elezioni europee i sudditi di Elisabetta parteciperebbero al voto? E’ una situazione paradossale e palesemente contraddittoria visto che con il referendum di giugno 2016 gli stessi sudditi hanno deciso di lasciarla l’Europa. Ed anche sulla legittimità di quel referendum i dubbi e i quesiti aperti sono non pochi.

Paradossi e contraddizioni hanno costellato fin dall’inizio la storia della Brexit e probabilmente continueranno a farlo. Il fatto stesso che Jeremy Corbin abbia bocciato il sofferto accordo raggiunto da Theresa May dopo mesi di negoziato, ma che egli stesso non sia contrario all’uscita dall’Ue contribuisce ad aumentare la confusione generale. 

Le contraddizioni diventano anche più profonde se si considera che il Regno Unito è, appunto, un regno e che al vertice c’è una regina in carne ed ossa con le sue idee e le sue opinioni. Anche se priva di potere politico “the Queen” rappresenta l’unità del paese e dunque queste sue idee dovrebbero valere pur qualcosa. 

Alcuni mesi prima del referendum del 23 giugno 2016, le sue idee Elisabetta le aveva espresse, eccome. Solo che lo aveva fatto “fuori casa”, lontano da Londra e da Buckingham Palace. Nel corso della sua ultima visita in Germania, avvenuta nell’autunno 2015, davanti alle massime autorità tedesche la regina aveva pronunciato un discorso memorabile. Un discorso in cui aveva esortato “a non dimenticare la lezione della storia, a combattere le divisioni all’interno dell’Europa, a difendere l’unità costruita dopo due guerre mondiali”, parole allo stesso tempo di allarme e di monito. 
Pochissimi giorni prima Elisabetta era stata in visita, prima volta nella sua vita, in un ex-campo di concentramento, quello di Bergen Belsen. Uno dei tanti campi in cui si è consumata l’immane tragedia dello stermino degli ebrei. Memoriali a cielo aperto di un passato neanche troppo lontano. Ricordarlo a pochi giorni dal 27 gennaio, Giornata della Memoria (ricorrenza internazionale celebrata ogni anno per commemorare le vittime dell’Olocausto), ha ancora senso? 

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