I Jamiroquai e il loro “The Return Of The Space Cowboy”(1994)

Jamiroquai

Verso la fine degli anni ‘80, dopo anni caratterizzati dai suoni sintetici della new-wave elettronica, vari artisti e gruppi britannici riscoprivano il fascino dei vinili rari di musica soul e funky anni ‘70. Vennero riscoperti anche strumenti come l’organo Hammond, il piano elettrico Rhodes, che durante gli anni ‘80 furono sostituiti da sintetizzatori e drum-machine. Questo fenomeno venne denominato “acid-jazz” e consisteva nell’attualizzare soul, funk, fusion e black-music in generale con nuovi suoni e ritmi al passo coi tempi di allora e più appetibili ai club e alle discoteche.

Tra i gruppi di quella corrente possiamo annoverare gli Incognito, il James Taylor Quartet (da non confondere con James Taylor, grande esponente del folk, del country e del cantautorato americano), i Brand New Heavies e i Jamiroquai. Di questi ultimi ci occuperemo in questo articolo di oggi raccontando il loro capolavoro, il secondo album intitolato “The Return Of The Space Cowboy”.

Il gruppo è capitanato da Jason Luis Cheetam, in arte Jason Kay o Jay Kay, che dir si voglia. Classe 1969, è dotato di una vocalità calda e suadente e dopo essere stato escluso dai Brand New Heavies capì che ce l’avrebbe fatta mettendosi in proprio. Nascono così i Jamiroquai, in cui Jason si avvale di un bassista fenomenale come Stuart Zender, oltre che di Toby Smith (tastiere), Derrick McKenzie (batteria) e di tanto in tanto veniva anche impiegato il didgeridoo, strumento a fiato tipico delle popolazioni arborigene australiane, in questo caso suonato da Wallis Buchanan. Dopo aver rilasciato, nel 1993, il superlativo “Emergency On Planet Earth”, il gruppo britannico dava vita al loro secondo album in cui viene fuori al meglio la loro creatività, “The Return Of The Space Cowboy”. Groove ipnotici e funky, presenza di piano Rhodes, sezione fiati e synths anni ‘70 sono le coordinate sulle quali si muove questo lavoro, oltre che tematiche come la vita di strada, la protesta giovanile, l’ecologia e la vicinanza alle popolazioni Native Americane (forte anche dei look di Jason Kay durante le sue esibizioni live).

Per rendersi conto delle ambizioni di quest’opera basta ascoltare tracce come la solare “Stillness In Time”, con presenza di flauto e percussioni, oppure brani più soft come “Half The Man” e “Morning Glory”, quest’ultima dalle atmosfere oniriche, tenebrose e notturne, grazie all’efficace impiego dei synths vintage. Il funk viene fuori nell’adrenalinica e danzereccia “Mr. Moon”, mentre più soul è “Manifest Destiny”. Ottima anche “Space Cowboy”, con un groove morbido, sinuoso e allo stesso tempo ipnotico. Tra echi di Stevie Wonder, Roy Ayers, Sly & The Family Stone, Jason Kay e la sua band ci offrono 65 minuti e rotti di grande musica, con un groove dal grande impatto e un sound che ci riporta alla black-music più classica ma risultando moderno allo stesso tempo.

L’album otterrà grande successo di critica e di pubblico, ricevendo recensioni positive, arrivando alla seconda posizione della classifica britannica e vendendo complessivamente, in tutto il mondo, 1.300.000 copie. Dopo questo lavoro farà seguito l’altrettanto pregevole “Travelling Without Moving”, contenente singoli killer come “Virtual Insanity” e “Cosmic Girl”. La musica dei Jamiroquai si muove sempre all’insegna del ritmo funky, è dotata di arrangiamenti superlativi e viene anche supportata da ottime esibizioni dal vivo, forte della presenza scenica del loro leader Jason Kay, personaggio istrionico e ricco di grandi doti artistiche.

“The Return Of The Space Cowboy”, oltre ad aver  permesso a lui e la sua band di poter far parte dello star-system, a distanza di 30 anni è un lavoro capace di mantenere intatte la sua freschezza e la sua attualità, una chiara dimostrazione che, rispettando e usando come riferimento la black-music anni ‘70 e proiettandola in una dimensione attuale, non si sbaglia mai. Si consiglia questo disco a chi desidera ottima musica soul-funky briosa, positiva e che invita alla danza.

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