Mina (Alba Rohrwacher) e Jude (Adam Driver) si conoscono nell’angusto bagno di un ristorante cinese. Si innamorano. Mentre sono a letto, lei riceve una telefonata di lavoro, entro due mesi dovrà trasferirsi in un altro posto. Lui le chiede se il lavoro è più importante di loro. Lei spiega che con il suo lavoro ci vive. Fanno l’amore, lei gli chiede di stare attento, lui la ignora, lei rimane incinta e subito si sposano.
Qui comincia il declino del loro idillio e delle loro vite. Mina si convince che il suo bambino debba essere protetto dal mondo esterno, impuro e contaminato: si chiude in casa col figlio nutrendosi solo di ciò che lei stessa coltiva nella serra e di altri oli e intrugli vegani. Il bambino non cresce, il padre, preoccupato, comincia a dargli di nascosto tacchino liofilizzato, mentre la madre olio di ricino per farlo digerire pensando di purificarlo.
“Hungry Hurts”, ispirato al libro di Marco Franzoso “Il bambino indaco”, è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2014, dove si è portato a casa le due Coppe Volpi per l’interpretazione di entrambi i protagonisti. Perfetta la Rohrwacher nella parte della madre squilibrata e anoressica.
Saverio Costanzo ha dimostrato già con “La solitudine dei numeri primi” una predilezione per le storie drammatiche e contemporanee, che ci racconta utilizzando spesso la macchina a mano, inquadrature molto strette, primissimi piani. In questo film “osa” anche il grand angolo e il fisheyes in stile documentaristico, per portarci nelle vite claustrofobiche di Mina e Jude. Sullo sfondo, una New York quasi inesistente. Le scelte di regia ricordano un po’ i film francesi vecchio stile: ritmi lenti, quasi ansiogeni, due, al massimo tre personaggi, e dialoghi limitati a poche battute.
Un film drammatico, un thriller psicologico, un giallo moderno, ma anche un racconto d’amore. Quella di Jude e Mina è la storia quasi banale e molto attuale di due giovani di fronte alla nascita del primo figlio, che si porta dietro i drammi e le paure nascoste in fondo alle nostre vite. Costanzo, con un incedere opprimente, soffocante, usa temi come l’alimentazione, il veganismo, i princìpi della nutrizione, per parlarci in realtà di coppie, maternità, cambiamento, depressione, della difficoltà di costruire una storia insieme, di incomunicabilità, della paura di fidarsi, lasciando fuori l’ossessione per se stessi che li porta a ritenere le proprie idee verità assolute. L’aggrapparsi feroce di una madre al suo bambino, come unico “oggetto” del desiderio è il sintomo di una sofferenza remota, di un bisogno che va al di là del legame fisiologico.
Ciò che salva Saverio Costanzo è l’essere riuscito a rimanere imparziale, il film arriva fino alla fine senza mai condannare i comportamenti ossessivi della madre o la scelta di Jude di rapire il proprio figlio, lasciando al pubblico la possibilità di comprenderne le debolezze e le infelicità.
In fondo, come canta Bruce Springsteen nel brano da cui è ispirato il titolo del film “Everibody’s got a hungry heart” (tutti hanno un cuore affamato).
di Patrizia Angona
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