Gli occhi, la vista, il senso

Il tema della vista è uno dei più ricorrenti nella storia della letteratura. Declinabile all’infinito, si trasforma nel corso del tempo. Da veicolo privilegiato dell’amore erotico (come era già per gli antichi) diventa strumento d’indagine della coscienza irrequieta dell’uomo moderno. Gli occhi infatti non sono solo l’organo sensoriale che consente la percezione di forme e colori, ma i detentori del senso che più degli altri riesce a penetrare la realtà, a coglierne le trasformazioni e gli imprevisti, a percepirne la stratificazione.  

Petrarca

Nel primo canto del Rerum vulgarium fragmenta — più comunemente conosciuto come Canzoniere — Francesco Petrarca scrive: «Era il giorno ch’al sol si scoloraro/per la pietà del suo factore i rai,/ quando i’ fui preso, et non me ne guardai,/che i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro». Il poeta si riferisce al suo primo incontro con Laura, avvenuto il Venerdì Santo del 1327. Il sole si ingrigisce perché è il giorno della morte di Cristo, ma Amore sceglie proprio questo momento per scoccare la sua freccia. È così che la fine dei travagli del Messia va a coincidere con l’inizio di quelli di Petrarca. Il dolore è dovuto al «giovanile errore» — nella doppia accezione di  sbaglio/vagare — perché l’illusione di un amore impossibile lo distoglie dai suoi alti compiti intellettuali, lo disorienta e gli provoca una sofferenza profonda. 

L’Amore arriva sotto forma di freccia e lo penetra dagli occhi, parola ricorrente nel Canzoniere. Gli occhi per Petrarca sono «uscio et varco» che mette in comunicazione la realtà esterna con il cuore. Al centro del campo visivo c’è Laura, donna in carne e ossa che rappresenta la fugacità dei piaceri terreni. Sperimentare la sua presenza lo accende di passione e soffrine l’irrimediabile assenza provoca nel poeta un dolore insopportabile. Così desiderio e tormento si alternano costantemente, facendo tribolare il cuore trafitto dalla freccia di Amore. Ma sono proprio questi continui moti di coscienza che rendono Laura una figura sublime. Sarebbe una donna qualunque se il poeta non la investisse con il suo sguardo, trasformandola nella proiezione di ciò che si cela nel profondo del suo animo.

Leopardi

 In L’infinito di Leopardi la proiezione dell’Io non investe solo un corpo, ma un mondo intero. Gli orizzonti si allargano, si contempla un’immensità che è possibile abbracciare solo se si rinuncia alla vista fisica e si usa quella dell’immaginazione. La vista fisica agisce solo nei primi versi nell’Idillio, il suo ruolo si esaurisce presto perché «quest’ermo colle» e «questa siepe» (chiari riferimenti al monte Tabor, luogo della Trasfigurazione di Cristo) limitano il campo visivo. Bisogna volare alto con l’immaginazione per scavalcare la siepe e tuffarsi negli «interminati spazi» e «sovrumani silenzi» che costituiscono l’eternità. È così che si arriva al famoso verso: «e il naufragar m’è dolce in questo mare». 

Non si tratta di un naufragio mistico, ma di un abbandono totale al piacere e al sentimento in cui l’io vaga senza nessun punto di riferimento. Questo mare sembra trascinare lontano nello spazio, in realtà porta negli angoli più profondi della coscienza, quelli impossibili da esplorare razionalmente. L’infinito non è qualcosa di concepibile per la mente umana, è un’intuizione tipica dell’uomo moderno. Con il progredire della scienza l’essere umano non riesce più a accontentarsi di quello che vede. Ha bisogno di valicare i confini di ciò che è possibile spiegare a parole per addentrarsi in terre inesplorate alla ricerca della radice di se stesso. 

Sbarbaro

L’Io protagonista della raccolta poetica Pianissimo è uno di quelli che attraversa questi confini. Lo fa suo malgrado perché per Camillo Sbarbaro la vista nitida della verità è una condanna. La sua visione del destino umano è intrisa di nichilismo. Al centro ci sono sempre gli occhi, sia quelli di chi vede sia quelli di chi non vede. I non vedenti sono coloro che si lasciano addolcire dalle illusioni e procedono inconsapevolmente verso un dirupo fatto di buio e silenzio. I veggenti sono coloro che oltre le apparenze scorgono il vuoto dell’esistenza e sono pochi disgraziati eletti.

Nelle poesie di Sbarbaro l’essere svegli è indice di cecità perché più si è vigili più si è frastornati dai rumori della realtà illusoria. La verità sta nel sonno e nell’assenza di suono (da qui il titolo Pianissimo). Il poeta-sonnambulo si aggira in una città svuotata da ogni apparenza. Una terra deserta, piena di oggetti senz’anima che simboleggiano perfettamente la condizione dell’uomo isolato. In questo deserto la vita oscilla continuamente tra noia e dolore. Solo le lacrime (velo tremulo che deforma la vista) potrebbero dare sollievo. Tuttavia gli occhi del poeta restano «crudelmente asciutti» davanti all’infinito Nulla che è nel destino di ogni essere umano.

Nella foto: The False Mirror, di René Magritte

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