Crescita, nonostante la guerra e il covid l’Azienda Italia corre

crescita italia

Crescita in Italia. I dati ci dicono che quest’anno cresceremo del 3,7% o del 3,8%. Quanto o più della Cina per la prima volta da una quarantina di anni. Anche se stiamo vivendo una crisi energetica e se eravamo uno dei Paesi più dipendenti dal gas russo. La performance dell’Azienda Italia sta smentendo in meglio tutte le previsioni. Anche quelle ufficiali. Sia dei governi che si sono succeduti, sia degli organismi internazionali.

Del resto il Fondo monetario internazionale si era sbagliato non di poco già nel 2020 e nel 2021. Per quanto riguarda il mese di aprile 2022, era appena iniziata la guerra in Ucraina. Era normale allora essere cauti. Il Fmi vedeva in Italia una crescita del 2,3%. Nello stesso mese, la Commissione europea vedeva il Paese crescere di appena il 2,4% su base annua.

Con il passare dei mesi lo sconvolgimento del mercato delle materie prime condusse a ripetuti shoc inflazionistici. Gli economisti mondiali dettero per scontato che ciò avrebbe condotto i paesi importatori alla cosiddetta “stagflazione”. Cioè a una recessione/stagnazione contemporanea all’inflazione. Il modesto cronista, in un precedente articolo, la pensava diversamente. E, fortunatamente, ha avuto ragione.

Crescita, smentite in meglio anche le previsioni più ottimistiche

Nell’ultimo trimestre, infatti, l’Italia è cresciuta anche più della Germania, della Francia e addirittura della Spagna. Mai ci era accaduto nell’ultimo trentennio. Sono state addirittura smentite le previsioni dei nostri governi. Ad aprile 2021 Mario Draghi – che era tacciato di ottimismo – puntava ad una crescita annua del 4,5%. È stata del 6,7%. Ad aprile scorso, a guerra iniziata, puntava su una crescita del 3,1% per il 2022. Ma, come detto, sarà almeno del 3,7%.

Contemporaneamente il nostro export ha avuto un boom. Ecco le variazioni dalla fine del 2019 alla fine del 2022, secondo la Commissione europea. Germania +0,9%; Francia +2,5%; Spagna +7,3%; Italia +8,8%. Eppure dal 2005 al 2019 era stata una stagione terribile in cui il Paese ha perso fino a un quarto della produzione industriale. Cosa è successo alle nostre imprese, una volta uscite dalla grande recessione, dalla crisi dell’euro e dalla crisi bancaria?

Si tratta di capire se il boom sia solo l’effetto delle riaperture dopo il biennio di lockdown e le proibizioni da Covid. Oppure se invece c’è anche qualcosa di sostanziale nelle sorprese che l’Italia ci sta indubbiamente fornendo.

Crescita, l’evoluzione delle nostre imprese

Sembrerebbe che le imprese italiane abbiano attraversato una fortissima selezione darwiniana. Sono sopravvissute le più forti, quelle meglio gestite, quelle più capaci ad adattarsi alla tempesta. Gli incentivi all’investimento tecnologico di Industria 4.0 hanno reso più efficienti migliaia di aziende esportatrici. Di qui la performance dell’export. Anche tante imprese non esportatrici sono tornate a beneficiare degli investimenti pubblici. Questi si sono risvegliati per la prima volta da anni, in parte grazie al Recovery Fund. L’incremento del Pil di questo segmento è passato dal 2% del 2018 ad oltre il 3% attuale. In proporzione è stato superiore a quello di Germania e Spagna.

L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha preso in considerazione il costo del lavoro in Italia per unità di prodotto. È questa una misura di quanto i salari siano proporzionali alla produttività. Ebbene, si stima che il ritardo sulla Germania di dieci anni fa si sia oggi dimezzato. Secondo Sylvain Broyer, di S&P, l’industria italiana gira ancora all’80% della sua capacità. Ma le aziende hanno ordini per più di sei mesi. Un periodo che cresce costantemente. Negli ultimi dieci anni hanno ridotto il loro debito di oltre dieci punti in proporzione al prodotto lordo.

Crescita, il ruolo degli interventi pubblici

Oggi le nostre imprese sono fra le meno indebitate nel mondo avanzato e il Covid ha portato loro un dono inatteso. Il governo, cioè, le ha indennizzate a debito per l’intero fatturato perduto. Nel frattempo però ha pagato loro la forza lavoro per intero. Quindi i margini delle imprese sono molto spesso cresciuti. Poi, è andata in crisi la Cina, mercato d’elezione della Germania. Ma non si sono mai fermati gli Stati Uniti, che per il “made in Italy” sono molto più importanti.

Nel 2022 le imprese hanno trasferito in pieno sulla clientela i costi della crisi del gas (generando inflazione). Ma contemporaneamente hanno incassato dallo Stato una parziale compensazione degli aumenti delle bollette. Non a caso i depositi liquidi delle aziende sono cresciuti di oltre 100 miliardi di euro negli ultimi tempi, raggiungendo gli oltre 420 miliardi di euro secondo i dati della Banca d’Italia.

Nel frattempo, per la prima volta da oltre un decennio, il credito bancario è disponibile per chi vuole investire. I flussi dei prestiti sono in parte ripresi, grazie alle garanzie pubbliche disposte per la pandemia. Contemporaneamente, nonostante le “cassandre”, si è registrato un complessivo risanamento delle banche. Solo cinque anni fa i loro crediti in sofferenza ammontavano a 145 miliardi. Oggi soltanto a venti miliardi.

Le cose che non vanno

Tutto bene allora? Non proprio. A fine 2021 si contavano 2,3 milioni di disoccupati per un tasso di disoccupazione del 9%. Non tantissimo, se confrontato agli ultimi 40 anni. Ma a questo dato si aggiunge un numero di “inattivi”, secondo l’ISTAT, che sfiora i 3 milioni.

La società Randstad Research ha quindi analizzato l’incontro tra domanda e offerta di lavoro nei diversi settori e territori. Ne è risultata l’efficienza dei diversi mercati del lavoro grazie agli spostamenti della cosiddetta “curva di Beveridge”. È questo uno strumento che misura la variazione percentuale del tasso dei posti vacanti al variare della disoccupazione.

La ricerca ha evidenziato come nella doppia crisi vissuta tra il 2005-2009 e il 2015-2019, la “curva di Beveridge” abbia mostrato un forte peggioramento. Con un conseguente forte aumento sia del tasso di disoccupazione che dei posti vacanti. Ne sarebbe derivato un punto di rottura tuttora in essere nel mercato del lavoro. Ma di ciò parleremo in un articolo successivo.

Foto di Toby Parsons da Pixabay

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