Contrade e contradaioli. Dietro le quinte del Palio di Siena

16 agosto – Si disputa oggi pomeriggio il Palio senese dell’Assunta, l’ultimo di due appuntamenti estivi a data fissa di questa corsa, o, come si dovrebbe dire, di questa carriera al cardiopalmo che vede Il Campo di Siena trasformarsi in una macchina del tempo in viaggio verso il Medioevo. L’altro è stato il 2 luglio ed entrambi coincidono con una solennità mariana. Sena vetus civitas virginis si legge in molti angoli della città. La devozione senese alla Madonna ha origini antiche e raggiunge l’apice nel 1260, alla vigilia della battaglia di Montaperti combattuta contro i guelfi fiorentini, quando Siena e il contado furono donati alla potestà della Madonna, in modo che i senesi fossero fatti salvi da qualunque giogo terreno che, per il loro carattere, sarebbe stato davvero intollerabile.

Si gareggia per conquistare il Palio, che in dialetto si chiama Cencio, ossia il drappo prezioso che è simbolo della vittoria e che, quest’anno, è stato firmato da Milo Manara.

Il Palio di Siena non è una competizione sportiva, ma un viaggio nell’anima di una città, un’anima antica che ancora pulsa e affascina invariabilmente. Ho letto spesso aspre critiche per il modo in cui si corre, per la salute dei fantini e quella dei cavalli, a volte compromessa. In realtà, il rapporto tra il fantino ed il cavallo è qualcosa di magico, di intimo, di solidale. Entrambi corrono, entrambi rischiano, entrambi si mettono in gioco. E i contradaioli non sono da meno. Il Palio va capito e vissuto. Si prega, si combatte, si ama, ci si danna. Bisognerebbe vederlo almeno una volta per capirlo veramente, bisognerebbe avere Siena nell’anima almeno un po’ per viverlo fino in fondo.

Io, ad esempio, Siena nell’anima ce l’ho. Appartengo ad un ramo collaterale dei Buonsignori, nobili feudali del XIII secolo e banchieri della Gran Tavola. Una delle prime banche, che vantava papi e re come clienti e che subì un tracollo finanziario anche a causa della prepotente richiesta di un credito inesistente da parte di Filippo IV il Bello, il re che sterminò i Templari per non onorare l’ingente debito che aveva con loro. C’era poco da scherzare con lui. Dopo il fallimento della Gran Tavola e la cessione dei beni personali dei banchieri, tra i quali il bel palazzo nobiliare, alcuni dei Buonsignori si trasferirono a Roma ed altri in Sicilia. È decisamente lontano il mio legame con Siena, dunque, eppure ogni volta che ci torno, mi sento a casa. Nei secoli è caduta la “u” arcaica e toscana dal mio cognome, ma non il senso di appartenenza dalla mia anima.

Contradaioli si nasce, nel senso proprio del termine. Appartieni alla Contrada in cui hai emesso il primo vagito. In passato, dunque, poteva anche capitare che i membri di una stessa famiglia appartenessero a Contrade diverse, a seconda della casa in cui erano nati. Ma questo valeva nei tempi in cui si partoriva in casa. Il concetto si è fatto più elastico, oggi. Visto che i parti avvengono quasi tutti all’ospedale, si diventa contradaioli per influenza genitoriale o per appartenenza ad un luogo familiare. Sotto questo profilo, mi considero contradaiola anche io, sebbene il mio “luogo familiare” non appartenga, certo, a me o alla mia famiglia. Mi riferisco a palazzo Buonsignori, oggi pinacoteca pubblica. Si trova nella Nobile Contrada dell’Aquila ed è per l’Aquila, dunque, che parteggio, che mi emoziono, che mi altero e mi esalto. È all’Aquila che appartengo e ne vado orgogliosa. È una sensazione irrinunciabile. Forse dipende dal fatto che, a Siena, il tempo fluisce in molte direzioni e il passato è un eterno presente.

Anche il Palio è testimone della persistenza del tempo.

Rispetto ad altri luoghi italiani, culle anch’essi di rievocazioni storiche, di competizioni antiche, a Siena non si assiste a un dramma, ma si entra in esso, si prende parte alla sua coralità e alla sua attualità. Per i senesi è un importante spaccato della propria vita e il turista lo percepisce, si mette quasi in disparte, capisce che non è uno spettacolo allestito per il suo piacere, capisce che, se lui non ci fosse, si correrebbe lo stesso, come accadde nel 1945, ad esempio, nel Palio cosiddetto della Pace, che, per un paradosso tutto toscano, fu teatro di una storica scazzottata fra i sostenitori della contrada favorita e quelli della contrada vincitrice. Il Palio è una realtà che non ha niente a che fare con il pubblico distratto, con i curiosi, con i meri spettatori; ha il suo pathos, la sua potenza, il suo grande impatto emotivo, psicologico, e persino politico.

Sì, perché le Contrade hanno un loro governo e lavorano su alleanze e coalizioni. Benché l’art. 89 del Regolamento vieti “qualunque partito o accordo diretto a far vincere il Palio ad una piuttosto che ad un’altra Contrada” nei mesi precedenti la carriera, si animano i più bizzarri giochi di potere, non ultima la richiesta di soldi ai contradaioli, utili per comprare favori di altre Contrade.

Sono 17 le Contrade. Anticamente erano di più. Le loro linee di confine e la loro organizzazione possono tuttora essere lette in un bando mediceo settecentesco emesso dalla governatrice Violante Beatrice di Baviera. Sarebbe interessante equiparare la prosa chiara ed esaustiva del bando con l’iperfabulatoria normativa contemporanea in tema di decentrameno amministrativo. Le Contrade, infatti, hanno una loro autonomia. Vengono definite “organismi territoriali con personalità giuridica, con competenze amministrative e con capacità di possedere immobili e di regolare le norme di vita comune della popolazione compresa nei loro confini”.

Alcune hanno patenti di nobiltà: L’Aquila, il Bruco, il Nicchio e l’Oca sono Nobili Contrade; la Civetta è la Contrada Priora, in quanto fu la prima in cui si radunarono i Priori; la Giraffa è la Contrada Imperiale, visto che vinse il Palio dell’Impero, quello etiope, si badi bene; l’Istrice è la Contrada Sovrana e l’Onda è la Contrada Capitana, per aver fornito, anticamente, i distaccamenti difensivi in maremma.

Ciascuna Contrada ha la propria chiesa, un centro sociale, un museo in cui è racchiusa la sua storia e i suoi trofei. Accanto alla chiesa, la fontana in cui ogni nuovo contradaiolo viene battezzato. Sullo stendardo che la contraddistingue figura il simbolo araldico dal quale prende nome e che si ritrova anche su varie targhe affisse in città, a voler segnare le linee di confine. Il governo di ogni Contrada è affidato ad un Priore, a parte l’Oca che ha un Governatore e il Bruco che ha un Rettore. Poi esistono Seggi con funzioni ministeriali e parlamentari, eletti da una commissione elettorale scelta da tutti i contradaioli con diritto di voto. Il Capitano e due Tenenti, invece, sbrigano le faccende relative alla corsa.

Le faccende relative alla corsa …

È il momento in cui cresce la tensione, cresce l’ansia, cresce l’interesse di tutti. È un fuoco che si alimenta piano piano fino all’incendio del 2 luglio e del 16 agosto.

Non è una corsa facile. Solo le regole sono semplici e nessuna fa riferimento a vocaboli comunemente in uso. Il viaggio nel tempo deve essere assolutamente completo.

I fantini, che, ricordiamolo, cavalcano a pelo, ossia senza sella né staffe, sono gli unici che guadagnano denaro. Per tutti gli altri, alla fine della corsa, c’è solo l’orgoglio.

L’arbitro che dà inizio alla carriera è il mossiere e “mossa” è il via, ossia quando cade uno dei canapi, una delle grandi corde all’interno delle quali si trovano i cavalli.

Sono solo dieci, i partecipanti: sette partecipano per il solo fatto di non aver partecipato l’anno precedente e tre vengono sorteggiati tra chi rimane. Anche i cavalli vengono sorteggiati. Sono una ventina, inizialmente. All’esito delle corse di selezione restano quelli da assegnare per sorte alle Contrade partecipanti. Da quel momento, il cavallo diventa il membro più importante della Contrada, da accudire, proteggere, allenare nei giorni di prova, benedire in chiesa. C’è una forte sacralità, in questa manifestazione. La stessa sede delle Contrade è accanto alla cappella di appartenenza.  A differenza del fantino, il cavallo non potrà essere sostituito in nessun caso.

Pochissime le donne chiamate a correre. La prima di cui si ha memoria è una pastora del 1581, tale Virginia, che corse per il Drago.

Le dieci Contrade che si disputeranno il Palio, oggi, sono: Aquila, Pantera, Bruco, Torre, Oca, Onda, Drago, Istrice, Selva, Chiocciola.

Tra di loro due coppie di storiche rivali: Aquila e Pantera, e Torre ed Oca.

La Contrada che non vince da più tempo è soprannominata Nonna. Il pericolo della cuffia (il copricapo delle nonne, per l’appunto) è la cosa più temibile dopo il secondo posto, che implica aver sfiorato la vittoria senza aver vinto. Purtroppo per me è proprio l’Aquila, attualmente, la Contrada Nonna, visto che da 27 anni non vince un Palio.

La notte della vigilia, il Cencio viene benedetto e così fantini e cavalli. Siena si anima di preghiere e banchetti, di canti e di battaglie, a volte a suon di pugni, in attesa dei rintocchi della Torre Campanaria del Mangia, chiamata ad aprire ufficialmente il Palio. Segue il rullare dei tamburi, la sfilata dei rappresentanti delle Contrade, lo sventolio delle insegne, delle bandiere, l’esplosione dei colori. Poi, ecco un lungo istante in cui il fiato si sospende. Escono i cavalli. La carriera ha inizio.

Sono solo tre giri di Campo che, tuttavia, suscitano eccitazione e stupore, sorrisi e lacrime, entusiasmo, paura, delirio, facendo rivivere un passato radicato nel presente, perennemente vivo, perennemente attuale. Un odierno medioevo in cui tuffarsi senza paura di affogare.

A partire dalle 18.30 di oggi Rai 2 trasmetterà la diretta. Fremo al solo pensiero.

Che il Palio accompagni i nobili cuori di chi voglia immergersi con me in un’epoca lontana e sempre attuale, nel clima mutevole ed immobile della splendida Siena.

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