Clelia Giacobini: la scienza a tutela delle opere d’arte

clelia giacobiniAvrebbe compiuto ottantacinque anni pochi giorni fa la scienziata Clelia Giacobini, fondatrice della microbiologia applicata alle opere d’arte, una disciplina fondamentale per la tutela del patrimonio culturale, se si pensa che l’80-90% del deterioramento dei reperti è dovuto esclusivamente agli attacchi microbiologici.

La studiosa romana è, purtroppo, scomparsa nel 2010, dopo quasi quarant’anni di attività presso l’Istituto Centrale della Conservazione e il Restauro, dove ha diretto per oltre trenta il laboratorio di biologia. Pur avendo ottenuto, in vita, riconoscimenti a livello mondiale, l’importanza di Clelia Giacobini, nel campo della tutela delle opere d’arte è tuttora misconosciuta, se si eccettua la sua presenza tra le voci di Wikipedia in italiano, inglese e francese.

L’importanza di avere un biologo tra i tecnici dell’ICCR, una delle tante eccellenze italiane, fu compresa per primo dallo storico dell’arte Cesare Brandi che, nel lontano 1957, ne era il direttore. Per motivi di fondi, però, non si poté integrare l’organico – già molto scarno – se non con un semplice “ricercatore volontario”. Alla selezione rispose Giacobini, all’epoca solo laureanda in biologia, anche se già farmacista.

In pochi anni (oltre a laurearsi per la seconda volta e a specializzarsi al Pasteur di Parigi), Giacobini aprì il laboratorio di microbiologia all’interno dell’Istituto e, per prima al mondo, definì la metodologia di studio per l’applicazione della disciplina ai beni culturali, individuando quattro fasi ben distinte: 1) sopralluogo all’opera d’arte e prelievo della campionatura in situ; 2) esame microscopico dei prelievi in laboratorio; 3) isolamento colturale dei prelievi; 4) identificazione dei microrganismi responsabili.

Il primo risultato senza precedenti, di tale azione, fu quello di riuscire ad indentificare i cinque fenomeni più tipici delle alterazioni microbiologiche degli affreschi. Successivamente si misero a punto metodologie tecnico-analitiche più perfezionate grazie all’applicazione del microscopio elettronico a scansione, che permise di effettuare immediatamente la diagnosi dell’alterazione e lo studio dei microrganismi nel loro ambiente naturale. Nel prosieguo, il laboratorio provvide a riesaminare la fenomenologia delle alterazioni e ad approfondire le conoscenze sui fattori ambientali e nutrizionali che favoriscono l’attacco degli agenti biologici.

Le aree archeologiche e le opere d’arte oggetto di intervento, tra gli anni settanta e novanta del XX secolo, sono state numerosissime; tra le più importanti: le tombe etrusche di Tarquinia, gli scavi di Ostia Antica e del Salento, l’Abbazia di Fossanova, le Ville venete, gli affreschi di Palazzo Farnese a Caprarola, gli affreschi di Giotto ad Assisi e quelli del Correggio a Parma, la Cappella degli Scrovegni a Padova e il Cenacolo leonardiano.

Ben presto, la microbiologia applicata alle opere d’arte cominciò a destare un interesse mondiale, nel campo della conservazione dei beni culturali, dove, peraltro, l’Italia rappresenta – comunque – un’eccellenza nel mondo. Clelia Giacobini fu chiamata ad intervenire in numerose campagne di restauro nei cinque continenti e a presiedere la I e la II Conferenza internazionale sul bio deterioramento dei Beni Culturali, tenutesi rispettivamente a Lucknow, in India, nel 1989 e a Yokohama, in Giappone, nel 1992.

Un incidente sul lavoro, nel 1995, costrinse Giacobini a lasciare l’attività operativa, a dimostrazione che anche lo studio dei beni culturali, a volte, può essere pericoloso come un cantiere. Oggi, possiamo affermare che se fosse esistito un Premio Nobel per la biologia, accanto a quello di altre scienze e discipline, Clelia Giacobini, donna e italiana, sarebbe stata sicuramente tra i premiati.

di Federico Bardanzellu 

foto: Wikipedia

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