Cicerone e il valore dell’amicizia

Cicerone

Nel dialogo Laelius de amicitia (44 a.C) Marco Tullio Cicerone dà una bellissima definizione dell’amicizia nella sua forma più pura e più alta: «L’amicizia non è niente altro che una grande armonia di tutte le cose umane e divine, insieme con la benevolenza e l’affetto». E proprio perché tanto preziosa è riservata soltanto agli animi virtuosi e equilibrati come quelli di Lelio — voce principale del dialogo — e soprattutto del suo celebre amico Scipione Emiliano. 

L’occasione narrativa da cui scaturisce la riflessione è proprio la morte di Scipione, che Lelio affronta con dolore ma anche con moderazione. Questo perché Lelio ritiene irragionevole mostrarsi inconsolabili davanti alla morte di un uomo la cui vita «per fortuna e gloria, fu tale da non poterle aggiungere nulla». Nel dialogo ciceroniano l’immagine che emerge di Scipione è soprattutto quella di un grande uomo in pubblico e di un grande amico nel privato. È lui il prototipo dell’amico perfetto, uno di quelli che «tanto li segue l’onore, il ricordo, il rimpianto degli amici» che pur essendo morti è come se continuassero a vivere. 

Amicizia, natura e virtù

Cicerone, per bocca di Lelio, ci spiega che l’amicizia ha molto a che fare con la natura e con la virtù. Innanzi tutto l’amicizia proviene dalla natura, non dalla necessità. Non nasce dal bisogno di appoggiarsi agli altri e dalla speranza di non restare soli. È bensì una nobilissima propensione dell’anima: «L’amore, da cui prende nome l’amicizia, è il primo impulso a farci unire per affetto». E perché questo affetto sia vero e disinteressato è necessario che gli amici — oltre che andare d’accordo «per i costumi e per carattere»— siano virtuosi. 

Dice l’arpinate: «Nulla è più amabile della virtù, nulla c’è che inviti di più ad amare, dal momento che a causa della virtù e dell’onestà, in un certo senso, amiamo anche quelli che non abbiamo mai visto». È giusto pertanto prima essere uomini onesti e poi cercare qualcuno di simile a sé. Essere virtuosi e onesti significa dire sempre la verità ma restare inclini all’affabilità e all’indulgenza, essere stabili e fidati, non chiedere all’amico atti disonorevoli e non essere disposto a commetterli a propria volta, non ricorrere all’adulazione e al servilismo. Un buon amico è anche un buon cittadino, fedele agli affetti come allo Stato.

Il buon amico e il buon cittadino

Nel dialogo non mancano riferimenti al quadro politico dell’età repubblicana. Si menzionano Tiberio e Gaio Gracco, le leggi Gabinia e Cassia, Pirro e Annibale… Il passaggio dalla dimensione individuale a quella della res publica sottolinea l’intento di Cicerone di rendere la sua opera utile non solo al singolo lettore, ma alla collettività e alla patria. Più uomini educati all’amicizia ci saranno più saranno gli uomini giusti e valorosi su cui Roma potrà contare. E in luogo di una comunità percorsa da intrighi e ambiguità domineranno la trasparenza e il buon senso. 

Si può dire che nell’ottica ciceroniana l’amicizia nobiliti l’uomo. Lo nobilita più di ogni ricchezza, carica politica, potere o piacere. Questo perché è frutto dell’impegno nel perseguire il sommo bene, mentre il resto si basa «non tanto sul nostro buon senso, quanto sui capricci della sorte». Ed è così che una società di uomini che antepongono questo sentimento a tutto il resto e sanno concretizzarlo nella propria vita è una società migliore, più civile, più felice.

Foto di Steve Buissinne da Pixabay

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