Cesare Pascarella – per gli amici Pasca – poeta e pittore romano dall’animo esuberante ed eccentrico, ci ha lasciato poesie in romanesco uniche nel loro genere. In esse troviamo gente del popolo che, davanti a una bottiglia di vino, racconta le più grandi imprese della storia. Questa antitesi fra popolano e storia è presente anche nella sua opera principale, La scoperta dell’America.
Pascarella nasce a Roma nel 1858. Ragazzo dall’indole eccessivamente vivace, fugge dal seminario gesuitico dove i genitori l’avevano mandato a studiare. Era il 20 settembre 1870 e da Frascati corre fino a Roma a piedi per assistere all’assalto di Porta Pia.
A scuola si ostina a parlare romanesco, rifiutandosi di rispondere ai maestri in italiano corretto. Il dialetto deve essere celebrato perché deriva direttamente dalla lingua degli antichi romani, dice. Dimostra quindi fin da giovane una naturale predisposizione alla parlata popolare, che sarà fondamentale nella sua carriera poetica.
La vita artistica
Finita la scuola, si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Riluttante a seguire i dettami dell’istituto, preferisce vagabondare per le vie di Roma e della campagna circostante per dipingere en plain air. Si associa perciò ai XXV della campagna romana, un gruppo di pittori che organizzano scappatelle domenicali nell’hinterland di Roma alla ricerca di bei paesaggi e di buone trattorie. Le atmosfere di queste gite sono rappresentate in un sonetto, Er fattaccio:
«Erimo venticinque in compagnia
De li soni. Fu un pranzo prelibato.
Dopo pranzo fu fatta un’allegria
Tutti a panza per aria immezzo ar prato
A l’aria aperta, e dopo avè ballato,
Ritornassimo in giù all’avemaria.»
È così che Pascarella inizia a frequentare la società artistica della nuova capitale: il Caffè Greco e via Margutta, partecipando anche alla scapigliatura romana. In questi ambienti, Cesare attira l’attenzione per i sonetti romaneschi che inventa e che declama a braccio davanti agli amici.
Comincia a collaborare con alcune riviste come la Cronaca Bizantina, il Fanfulla della domenica e il Capitan Fracassa, giornali letterari che danno il via alla sua carriera. A ventitré anni lavora come poeta affermato.
Il romanesco di Pascarella e la figura del popolano
Nelle sue poesie i protagonisti sono sempre persone del popolo. Gente semplice che parla della propria vita, che racconta storie ai propri amici. “Come fu? Fu che avemio principiato /A magnà’, ne la pergola in giardino…”; “Me pare jeri. Stavo ner casotto, / Quanto sento strillà’… Ched’è? m’affaccio…”. Per ragioni espressive e di veridicità, la lingua è quindi obbligatoriamente il romanesco. Pascarella adopera un dialetto che però, rispetto a quello del Belli, è molto più diluito nel toscano e di più facile comprensione.
Tuttavia, nei suoi sonetti, Pascarella non parla soltanto della quotidianità e dei fatti di cronaca. Egli tratta anche di grandi imprese, come della scoperta dell’America o della storia d’Italia. Mentre la voce narrante rimane quella del trasteverino arguto e compagnone.
Le grandi vicende degli uomini vengono quindi analizzate sotto il particolare punto di vista del popolano, che interpreta i fatti con semplicità, dandone una morale quotidiana, legata alla vita di tutti i giorni. Come vediamo ne La scoperta dell’America: “Perché er servaggio, lui, core mio bello, / Nun ci ha quatrini; e manco je dispiace […] / Invece noi che semo una famija / De ‘na razza de gente più civile, / Ce l’avemo… e er Governo se li pija”. E anche, “Si ar monno nun ce fosse er matrimonio, / Ma sai si quanta gente sposerebbe!”.
Lo storicismo di Pascarella
Nelle opere maggiori viene rivelato quindi un credo fondamentale di Pascarella: la fede nella storia. La sua conoscenza è essenziale, poiché è essa che aiuta l’uomo a comprendere la propria realtà. È dunque imperativo raccontare gli eventi storici. Qualunque altra narrazione è un’invenzione, non conta nulla.
Ogni persona fa parte della storia universale, anche se non lo sa. Ne fanno parte gli avventori della locanda, che nei sonetti del Pasca raccontano avventure fra un bicchiere di vino e l’altro. “Vedi noi? Mò noi stamo a fà bardoria:/ Nun ce se pensa e stamo all’osteria… / Ma invece stamo tutti ne la storia.”
È in quest’atmosfera che si sviluppa La scoperta dell’America: al tavolo di un’osteria, un trasteverino inizia a raccontare di Colombo ai suoi amici. La descrizione delle imprese abbonda di incoerenze e di esagerazioni. Colombo, il re del Portogallo, i selvaggi vengono trattati dal protagonista come se fossero suoi amici o parenti. Come se l’intera vicenda fosse uno dei tanti fatti di cronaca che accadono a Roma.
Le poesie di Pascarella proclamano che la storia non è qualcosa di morto e sepolto, ma in qualche misura è vicenda nostra, personale. Noi stessi ne siamo i protagonisti e i narratori. I grandi uomini del passato sono amici di cui conversare in trattoria, a cui alzare un brindisi a fine pasto, “Perché la storia si pe’ l’antri è storia, / Pe’ nojantri so’ fatti de famija”.
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