‘A pizza e niente cchiù!

pizza

Da tempo occupa stabilmente il primo posto nella classifica dei cibi italiani più amati, è uno dei simboli dell’Italia nel Mondo ed anche uno dei cibi più frequentati dalla cinematografia d’oltreoceano, al punto da figurare anche in «E.T.» di Spielberg ed in «Manhattan» di Woody Allen.

Eppure, tra fantasmagoriche attribuzioni italoamericane e tentativi di nobilitarne l’origine con collegamenti alla cucina colta di Bartolomeo Scappi, della storia della pizza, quella tonda «cu ‘a pummarola ‘ncoppa», sappiamo veramente poco.

Proviamo allora a ripercorrerne l’evoluzione senza falsi miti e sulla base della scarna documentazione storica.

L’origine del nome «pizza»

Il primo riscontro scritto della parola «pizza» è stato rinvenuto in un documento commerciale del 997, un contratto di locazione di un mulino sul fiume Garigliano contenuto nel Codex Diplomaticus Caijetanus, la qual cosa, tuttavia, al di là delle rivendicazioni campanilistiche del Comune di Castelforte, non prova assolutamente nulla circa le origini della pizza, o almeno di quella che conosciamo oggi.

Sull’etimo della parola si sono peraltro confrontate, tra linguisti, varie teorie (v. Mario Alinei ed Ephraim Nissan «L’etimologia semitica dell’it. pizza e dei suoi corradicali est-europei, turchi, e dell’area semitica levantina» in Quaderni di semantica, n. 1, giugno 2007) e quella più ragionevole sembra correlare il termine con la «pita», cioè col pane lievitato arcaico che, con diversa declinazione e fattura, si ritrova in tutti i Paesi del Mediterraneo e dei Balcani.

Risalendo ancora più indietro nel tempo, e seguendo come filone quello della panificazione e non della cucina, vale riferire che reperti delle prime focacce, impasti di cereali selvatici decorticati, macinati, impastati e schiacciati, cotti in forni rudimentali, sono stati trovati dagli archeologi in Giordania e datano 14 mila anni fa, prima quindi della nascita dell’agricoltura.

A loro volta i Romani, che appresero l’arte della panificazione dai Greci e dai Macedoni, vi arrivarono relativamente tardi visto che Plinio il Vecchio, nella «Naturalis Historia» del 77 d.C. scrisse, rimpiangendo i tempi andati, che «pulte autem, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum» (di farinata e non di pane vissero i Romani per lungo tempo) e pur avendo fatto del pane e delle focacce gli alimenti principali della loro dieta, al punto che i mugnai-panettieri crebbero progressivamente in prestigio e ricchezza, non possono, almeno questa volta, essere tirati in ballo.

La «pinsa romana», che da qualche tempo ha iniziato a prendere piede al posto delle tradizionali pizze tonde, è infatti un’invenzione recente di un pizzaiuolo romano e malgrado utilizzi un termine derivato dal verbo latino «pinsere» (pestare, schiacciare) è successiva alla pizza del latino medievale di Gaeta.

La pizza come espressione dell’Arte Bianca

Inutile cercare la pizza nei testi di cucina più antichi, dove al massimo troviamo torte e focacce di pasta sfoglia o pasta frolla, per lo più arricchite, alla moda medievale, con «zuccaro» e con le immancabili spezie, su tutte la cannella.

La pizza, in ogni declinazione, è infatti espressione dell’Arte Bianca cioé di quel campo a se stante della gastronomia incentrato sull’uso della farina, dal cui candore prende il nome, che per lunghissimo tempo è stato strettamente correlato, in una medesima filiera produttiva, alla molitura del grano e alla sua trasformazione in farina.

Del resto, se si guarda alla sostanza e non alla forma, la pizza non è che una delle tante declinazioni della pasta lievitata del pane ma, a differenza del pane, che ha bisogno di un companatico (a meno di non farcirlo con la fantasia come nel celeberrimo film di De Sica) è autosufficiente sia dal punto di vista alimentare, sia sotto l’aspetto dell’appagamento del gusto.

La geniale intuizione dei panificatori, poi pizzaiuoli, partenopei, è stata allora quella di creare un prodotto di basso costo e di facile produzione e consumo che soddisfacesse la tasca e la pancia.

Cogliendo l’anima profonda della pizza napoletana scriverà il romanissimo Aldo Fabrizi nella poesia «Mamma pizza»: «‘o fatto sta, ch’a pizza salva ‘a famme e ‘a dignità».

La pizza napoletana

La pizza è nata a Napoli e, si potrebbe aggiungere, non poteva che nascere a Napoli.

Vincenzo Salemme, attore, scrittore, drammaturgo e regista, è forse l’interprete più espressivo della napoletanità contemporanea, ma ha un «difetto»: non è nato a Napoli, ma a Bacoli e sulla dimostrazione della sua napoletanità malgrado le sue origini provinciali ha scritto un libro, poi spettacolo teatrale: «Napoletano? E famme ‘na pizza» perché da un napoletano verace ci si deve attendere, come minimo, che sappia fare la pizza.

Napoli e la pizza rappresentano, infatti, un binomio inscindibile, almeno dai primi del 1700, epoca in cui datano le prime pizze napoletane ma, e qui c’è un dato curioso, non le prime pizzerie che arriveranno solo negli anni ’30 dell’800.

Lo testimonia la Pizzeria Port’Alba, la più antica di Napoli e quindi del Mondo: nata nel 1738 come laboratorio da cui andavano a rifornirsi i venditori ambulanti, diventerà «pizzeria» solo nel 1830 quasi un secolo dopo.

Risale invece al 1780 la Pizzeria Brandi a Chiaia che rivendica l’invenzione, nel 1889, della «Pizza Margherita», con pomodoro, mozzarella e basilico. Di diverso avviso i rivali di Port’Alba che ritengono il popolare condimento diffuso ben prima della dedica alla Regina Margherita, ma si sa che nel commercio nomi accattivanti e illustri testimonial possono decidere le sorti di un prodotto: brand ed influencer sono nati ben prima degli attuali.

Le altre pizzerie storiche sono sorte tutte nel periodo tra la metà del 1800 e gli anni ’20 del ‘900 di pari passo con la diffusione del prodotto il quale, peraltro, sino al secondo dopoguerra, è stato un fenomeno esclusivamente locale anche se non solo popolare.
Intellettuali come Gabriele D’Annunzio e Salvatore Di Giacomo e filosofi come Benedetto Croce erano abituali frequentatori delle pizzerie così come attori del calibro di Totò, Macario e Nino Taranto che frequentavano la pizzeria Trianon da Ciro adiacente all’omonimo teatro.

Si diceva che la pizza non poteva che essere nata a Napoli e quest’affermazione scaturisce sia dall’indole del popolo napoletano, che a dispetto dei luoghi comuni è perennemente indaffarato e ha ben poco tempo per mangiare soprattutto a pranzo, sia dalla struttura dell’artigianato napoletano che in una città in cui la strada è la naturale appendice della casa, è stato a lungo di strada sia nella produzione sia nella distribuzione attraverso gli ambulanti.

A questi ultimi, per non perdere tempo e fatica, si rivolgevano un tempo le massaie «calando il panaro» cioé calando dai terrazzini o dalle finestre piccoli panieri di vimini appesi ad una corda.

Di quest’uso, diffuso nei quartieri popolari sino alla fine degli anni ’70, dà un gustoso spaccato l’episodio «Pizza a credito» con Sophia Loren e Giacomo Furia nel film di De Sica del 1954 «L’oro di Napoli» liberamente tratto dall’omonima raccolta di racconti di Giuseppe Marotta.

La pizza stavolta è quella fritta, che ancora concorre con quella classica, preparata direttamente in strada sulla porta di uno dei bassi, i locali angusti, senza finestre e senza servizi, in cui viveva, e spesso lavorava, quella parte considerevole del popolo napoletano che non poteva permettersi un’abitazione migliore.

Del commercio ambulante della pizza danno invece testimonianza, a circa cinquant’anni di distanza, Alexandre Dumas padre, nella raccolta di racconti «Le corricolo» redatta nel 1835 e pubblicata nel 1843 e Matilde Serao ne «Il ventre di Napoli», il libro-denuncia sulle condizioni di Napoli e dei napoletani pubblicato a cavallo tra la fine dell’800 e gl’inizi del ‘900.

Entrambi, seppur con toni diversi – divertito il primo, indignato la seconda – narrano di queste pizze e dei loro condimenti.

«La pizza est a l’huile, la pizza est au lard, la pizza est au saindoux, la pizza est au fromage, la pizza est aux tomates, la pizza est aux petits poissons» (all’olio, al lardo, alla sugna, al formaggio, al pomodoro, ai pesciolini) scriveva Dumas, mentre la Serao osservava: «vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza».

Cibo popolare ad un prezzo popolare

Ancora la Serao scriveva: «la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo, di moltissima parte del popolo napoletano». A due soldi invece, e quindi al doppio, sempre secondo la Serao, si acquistava un piatto di maccheroni cotti e conditi: un lusso se paragonati alla pizza.

Dal cibo di strada alle «pizzerie»

A metà del 1800 la maggior parte dei laboratori iniziò a trasformarsi in pizzerie, cioè locali in cui la preparazione delle pizze, come accade ancora oggi, si univa al consumo al tavolo e alla mescita del vino e di altre bevande e la pizza venne affiancata da altre pietanze, pur restando al centro della produzione gastronomica.

È con tutta probabilità che è in questo periodo di esplosione del fenomeno (mentre fino a pochi anni prima narrava Dumas che i venditori ambulanti di pizza d’estate si trasformavano in cocomerari) che nacque l’arte del pizzaiuolo napoletano che nel 2017 verrà iscritta dall’Unesco nell’Elenco Rappresentativo del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.

Seppure non mancano elementi comuni con altre forme di ristorazione come le osterie e le trattorie le pizzerie si differenziarono per un elemento immancabile: la confezione e la cottura della pizza, rigorosamente in forno a legna, in piena vista, addirittura come forma di esibizione e di spettacolarizzazione coinvolgendo, come ha riconosciuto l’Unesco, «gesti, canzoni, espressioni facciali, gergo locale, abilità nel manipolare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere. I portatori e gli ospiti si impegnano in un rito sociale con il Pizzaiuolo, il cui banco e forno fungono da “palcoscenico” durante il processo di preparazione della pizza. Ciò avviene in un clima conviviale caratterizzato da continui scambi con gli ospiti».

Una lettura forse sin troppo edulcorata, ma che indubbiamente ha contribuito non poco alla diffusione della pizza e della pizzeria come moderna alternativa alla trattoria e all’osteria.

Con le mani o con coltello e forchetta?

Uno dei grandi dilemmi che si hanno di fronte ad una pizza è se mangiarla con le mani o con coltello e forchetta e non sono pochi coloro che, anche con motivazioni di tutto rispetto e forse influenzati dai film americani in cui i tranci di pizza vengono afferrati con le mani, sostengono l’inutilità delle posate.

Per chiarire definitivamente la questione si può chiamare in causa il grande Totò che nella scena della pizzeria del film del 1940 «San Giovanni Decollato» si gusta la sua bella pizza con le posate: prima dividendola in spicchi e poi piegando e portando alla bocca ogni spicchio.

«Noblesse oblige» è proprio il caso di dire considerando il lingnaggio di Totò.

La pizza tonda alla romana

Scriveva Matilde Serao agli inizi del ‘900: «Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava, il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse, poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana».

Forse la Serao fu troppo pessimista, ma è un fatto che la pizza napoletana a Roma non si è mai affermata completamente anche se come abbiamo visto Aldo Fabrizi nella sua raccolta di ricette in versi «Nonno pane» vi ha dedicato la poesia «Mamma pizza» in cui, caso più unico che raro per un poeta romanesco, ha utilizzato il dialetto napoletano.

L’attitudine di romanizzare a proprio gusto ogni piatto tradizionale non poteva, peraltro, risparmiare la pizza napoletana e così a Roma, in cui la pizza per antonomasia è quella bianca del fornaio, si prepara l’unica consolidata alternativa a quella tonda napoletana.

La differenza, a ben vedere, non è negli ingredienti e nei condimenti, ma nella consistenza della sfoglia, che a Roma è sottile e lavorata col matterello, e soprattutto nel bordo che nella napoletana è corposo grazie al movimento manuale del pizzaiuolo e invece nella romana è basso e bruciacchiato e corrisponde solo alla parte non condita della pizza.

Una pizza, quella romana, priva di una sua codifica, a differenza della napoletana, ma non di una sua riconoscibilità e sulla quale si sono innestate le varie pizze gourmet.

Altra caratteristica della pizza romana è di consentire, proprio grazie alla sua minore consistenza, di non esaurire il pasto e questo ha forse decretato il successo delle pizzerie a partire dagli anni ’60 e ’70.

Le pizzerie romane, infatti, hanno ereditato la tradizione dei friggitori, un tempo diffusi in tutta Roma e poi scomparsi, proponendo, in attesa delle pizze, filetti di baccalà, supplì e fiori di zucca fritti oltre alle immancabili bruschette, fette di pane abbrustolito condite con olio e aglio o con pomodori a pezzi.

Pure recuperati dalle pizzerie attingendo alla cucina romanesca sono i crostini, un tempo con la provatura poi sostituita dalla mozzarella, mentre nel classico calzone napoletano, cioè la pizza ripiegata e infornata, a Roma si cela il panzerotto con salumi, uova e formaggio.

L’ultima differenza tra la tradizione partenopea e quella romana è l’abbinamento delle bevande: mentre a Napoli, almeno originariamente (e occorre nuovamente citare il film del ’40 con Totò) alla pizza si abbinava rigorosamente il vino, preferibilmente rosso, a Roma con la pizza si beve prevalentemente la birra chiara retaggio di una produzione locale iniziata alla fine del 1800 e poi sviluppatasi ai primi del ‘900 nello stabilimento Peroni nella zona di Piazza Alessandria, fuori Porta Pia.

La pizza italoamericana

La straordinaria diffusione della pizza negli Stati Uniti e le molteplici presenze nella recente cinematografia (oltre ai già menzionati «E.T.» e «Manhattan» troviamo la pizza anche in «Ritorno al futuro II», «Mangia, prega, ama», «Spiderman» e persino in un horror come «Nightmare 4» ed in un film di animazione come «Tartarughe Ninja») lascerebbero supporre che la migrazione italiana negli Stati Uniti abbia apportato un contributo significativo all’evoluzione della pizza, ma l’ordine cronologico smentisce questa ipotesi.

Secondo Tommaso Esposito, («La pizza New York Style? E’ una bella storia terrona di emigrazione») la prima pizzeria italoamericana ha aperto a Little Italy a New York nel 1905 e le altre diffuse negli altri Stati datano tra gli anni ’20 e gli anni ’30 mentre sulla costa ovest la pizza sarebbe approdata solo nel 1934.

A quel punto in Italia, come si dice, i giochi erano già fatti e la Regina Margherita aveva già apprezzato la pizza con pomodoro, mozzarella e basilico che porta ancora oggi il suo nome.

La consacrazione nazionale

A decretare la diffusione nazionale della pizza e la sua consacrazione ad alimento preferito è stata probabilmente la massiccia migrazione interna del secondo dopoguerra che ha anche inciso sulla gastronomia nazionale modificando profondamente il gusto e le abitudini degli italiani.

Ne furono lo specchio, inizialmente, il cinema e la musica leggera.

Nel 1954 fece il suo esordio nelle sale «I milanesi a Napoli» con Tognazzi ed Eva Nova: una sorta di replica ironica e canterina al drammatico «Napoletani a Milano» di Eduardo De Filippo dell’anno prima.

Il film, con poche pretese e notevoli concessioni agli stereotipi, portò alla ribalta nazionale, con la scusa del tentativo di una sua improbabile industrializzazione milanese, la pizza napoletana ed i pizzaiuoli.

Più ancora in termini di popolarità fu il contributo di «’A pizza» presentata al Festival della canzone napoletana del ’66 dall’inedita coppia Aurelio Fierro-Giorgio Gaber.

La canzone, un tormentone per l’epoca col suo orecchiabile ritornello («Ma tu vulive ‘a pizza, ‘a pizza, ‘a pizza, cu ‘a pummarola ‘ncoppa, ‘a pizza e niente cchiù!») narrava di una signora insensibile ai regali più costosi e ai cibi più raffinati, compresa la torta nuziale, ma che voleva solo la pizza.

Un quarto di secolo dopo gli 883 per esprimere la frustrazione ed il disagio giovanile canteranno: «con un deca non si può andar via, non ci basta neanche in pizzeria».

La pizza era ormai definitivamente entrata nel quotidiano e lo è ancora oggi.

Fortunatamente.

Foto di Matteo Orlandi da Pixabay

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