Welcome to New York, il film sullo scandalo a luci rosse che travolse Strauss-Kahn

welcome-to-new-york-abel-ferrara-teaser-poster-italiano-2_newsPresentato fuori concorso a Cannes 2014 per evitare ulteriori polemiche e scossoni alla politica francese, il nuovo film di Abel Ferrara “Welcome to New York” si è subito fatto notare come la proiezione più applaudita, discussa e contestata di tutto il festival.

Nonostante l’incipit ci avvisi che i personaggi e le loro storie siano fittizi, e nonostante l’utilizzo di nomi diversi dei veri protagonisti, la storia prende spunto dallo scandalo che nel 2011 travolse l’allora direttore del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn (nel film cambiato in Devereaux), per l’accusa di tentata violenza sessuale ai danni di una cameriera di colore mentre alloggiava in un hotel di Times Square a Manhattan.

Il film, pionieristicamente distribuito solo in streaming via web e non nelle sale, può essere diviso in tre atti più un prologo, come nel più classico dei drammi teatrali. L’originale introduzione iniziale è affidata ad una finta intervista a Gérard Depardieu in cui l’attore spiega la sua scelta di interpretare un personaggio che biasima, così come sottolinea la sua antipatia per i politici in generale. Dopo questo breve artificio metalinguistico comincia il film, che nella prima mezz’ora ci offre lo stile di vita eccessivo del signor Devereaux, in mezzo ad escort, festini, alcol, cialis e orge, il tutto filmato con la tipica estetica cinematografica di Ferrara, asciutta e gelida, controllata e distaccata anche nelle scene più spinte al limite tra il grottesco e il cinema hard. Questa prima parte cupa e decadente ha il suo climax nella scena del tentato stupro alla cameriera africana (e qui Ferrara sceglie di condividere la strada “colpevolista” che ha portato a querela e citazione in giudizio di film e regista da parte di Strauss-Kahn).

Nella seconda parte i ruoli si invertono: Devereaux viene fermato, ammanettato, interrogato e successivamente imprigionato per una settimana senza possibilità –almeno inizialmente- di uscire su cauzione. Per l’uomo di potere avviene il contrappasso dantesco nell’essere spogliato, umiliato, sottomesso e annullato davanti alla legge. Il corpo nudo, grasso e sfatto di Depardieu è perfetta metafora dell’avvenuta autodistruzione di un uomo che ha vissuto alimentato da potere, denaro, sesso, quest’ultimo visto come mera mercificazione di corpi-oggetti. Il re è nudo, ferito, sconfitto, inerme. Il regista tralascia volutamente gli aspetti giudiziari in aula per cominciare a scandagliare la personalità di questo “peccatore” ai vertici della società.

La terza parte del film si svolge in un appartamento in affitto di Manhattan, dove Devereaux trascorre gli arresti domiciliari, in attesa di processo e sentenza, in compagnia della moglie Simone (nella realtà Anna Sinclair), interpretata da un’ottima Jacqueline Bisset.

Quest’ultima parte ci mostra un Devereaux ancora diverso da quello conosciuto in precedenza: la grande prova “fisica” di Depardieu nei primi due atti, viene qua affiancata ad una altrettanto convincente prova attoriale più intimista e riflessiva: Devereaux si mette a nudo, questa volta intellettualmente, ammette di essere malato di dipendenza sessuale e allo stesso tempo prova a ristabilire un rapporto con la moglie. Lo spettatore passa quindi a riconsiderare il giudizio sul protagonista, che ora appare più vulnerabile, un sex addicted che quasi fa pena, più da curare che da condannare.

Nell’ultimo confronto tra marito e moglie, Simone si rivela più preoccupata per gli effetti negativi dello scandalo, che impediranno a Devereaux di candidarsi alle elezioni presidenziali, più che per le azioni compiute da suo marito: alle relazioni extraconiugali è ormai abituata, ma l’accusa di stupro è faccenda più seria, brusca frenata alle ambizioni di potere che la fredda e calcolatrice donna ha studiato per lui. Non si tratta dunque solo di una spalla, ma di una donna cinica, tenace, indipendente (chiari i riferimenti del marito alle grandi ricchezze ottenute dal padre di lei durante il periodo nazista).

Ormai privati delle maschere perbeniste imposte dalla società e dal ruolo che ricoprono in essa, i due coniugi possono sfogarsi liberamente ed analizzare le loro solitudini. Nel lungo monologo finale, Devereaux si confessa: “Lo sai come sono fatto. Io sono questo, questa è la mia malattia”. Se nel “Cattivo tenente” Ferrara aveva dato al peccatore Keitel la possibilità di redimersi sacrificando se stesso per compiere l’unica azione buona della sua vita, ventidue anni dopo, per il regista cattolico la scelta è diversa, più che pessimista senza speranza: non esiste alcun modo per espiare la colpa e – come ammette lo stesso protagonista- “nessuno può salvare nessuno, perché nessuno vuole essere davvero salvato”.

di Fabio Rossi

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