Russia e Ucraina. Un anno di negoziati e accordi

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Per quanto possa sembrare incredibile, anche il governo più belligerante e minaccioso punta all’ottenimento della pace. La pace è il moto di stabilità per una o più nazioni. È il momento in cui un paese e il suo popolo possono elaborare serenamente processi amministrativi e sociali. Di contro, la guerra è lo sconvolgimento di questi fattori. È l’insicurezza dei programmi individuali e collettivi. È l’incertezza verso qualsiasi prospettiva futura. È la paura di perdere qualsiasi cosa che con la pace invece si guadagna e si accumula. Per questi motivi qualsiasi governo propende per la pace. A meno che non abbia la possibilità di guadagnare di più grazie alla guerra. Alla base ci sono due sunti importanti: <il fine giustifica i mezzi> (frase attribuita erroneamente a Machiavelli) e <la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi> (pensiero espresso certamente da Karl Von Clausewitz). L’intenzione di chi avvia la guerra è guadagnare qualcosa per poi tornare quanto prima in stato di pace e godere di tale guadagno, giustificando quindi il suo ottenimento e vincendo laddove la diplomazia e i mezzi politici prima impiegati avevano fallito.

Qua finisce la teoria. Perché in realtà guerra significa distruzione di edifici, morte di persone, instabilità economica, danni a cultura e società, ripercussioni fisiche e psicologiche per decenni. Dall’altro lato, pace non significa solo la non esistenza della guerra. Perché non c’è pace senza giustizia, non c’è pace senza dignità, non c’è pace senza sicurezza. Questo è importante perché sottolinea come le condizioni per ottenere la pace siano molto più complicate ed elaborate rispetto a quelle per ottenere una guerra. E il conflitto Ucraina-Russia non fa eccezione.

Un po’ di precedenti in fila

Si potrebbe ammettere che in realtà le trattative per la pace siano iniziate ben prima dell’invasione russa del 24 Febbraio 2022. Di fatto un conflitto fra stati era già in corso fin dal 2014: l’Ucraina cercava di riprendere il controllo delle auto-proclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk (supportate dalla Russia). Questo conflitto aveva raggiunto il suo apice già nel 2014 per poi stabilizzarsi a settembre dello stesso anno grazie al Protocollo di Minsk attuato fra Ucraina, Russia sotto la supervisione dell’OCSE, ottenendo una situazione frizzata, anche se ostile, con un fronte di combattimento più o meno attivo. Negli anni successivi, la questione Ucraina scomparve fra gli interessi mediatici italiani ed europei. Fino ad aprile 2021, quando la Russia iniziò ad accumulare truppe lungo il confine ucraino. Ma i numeri che hanno davvero intimorito la possibilità di un conflitto si ebbero a novembre: secondo l’intelligence statunitense c’erano circa 114 mila soldati dispiegati vicino al confine, ufficialmente per esercitazioni. Il 2 Dicembre 2021 a Stoccolma avvenne l’incontro fra il segretario di stato americano Antony Blinken e il ministro degli esteri Sergei Lavrov. Il primo chiese alla Russia di raffreddare le tensione e ritornare sulle posizioni precedenti (previste dal Protocollo di Minsk), mentre il secondo assicurò che il presidente Putin non voleva nessun conflitto ma intendeva salvaguardare la propria sicurezza e sovranità. L’11 Gennaio 2022 ci furono dei nuovi colloqui sul tema, stavolta fra la vicesegretario di Stato americana, Wendy Sherman, e il viceministro degli esteri russo, Sergei Ryabkov. Tema centrale fu l’Ucraina (seppur senza alcuna delegazione di tale nazione presente): da una parte la richiesta di ritirare le truppe russe dal confine, dall’altra la richiesta nero su bianco di non ammettere quello stato nella NATO. Piccola parentesi: si noti che per il regolamento stesso della NATO non può essere ammessa nell’alleanza nessuna nazione che abbia dei conflitti in corso, perciò l’Ucraina non avrebbe potuto entrare finché fosse rimasta aperta la questione col Donetsk e Lugansk. Lunedì 7 febbraio il presidente francese Emmanuel Macron incontra il presidente russo Valdimir Putin a Mosca, il suo fu un tentativo purtroppo vano di de-escalation cercando di convincere il Cremlino a ritirare le truppe dal confine. Mercoledì 15 febbraio 2022 il presidente tedesco Olaf Sholz (che era appena stato a Kiev per incontrare Zelensky) si incontra con il presidente russo Putin. Alla conferenza stampa che segue, il governo russo disse che alcune delle sue truppe sarebbero state ritirare dal confine. Come ormai è noto, si rivelò una bugia: il 24 Febbraio l’esercito russo attraversò il confine. È l’inizio dell’invasione.

Gli incontri, le delegazioni

Pochi giorni fa un giornalista italiano, riferendosi all’Ucraina, ha detto: “se io vengo aggredito e sono visibilmente più debole cerco subito di trovare un compromesso”. Interessante notare che è proprio ciò che successe: il 25 febbraio il presidente ucraino Zelensky chiese pubblicamente di poter parlare con il presidente russo Putin per porre subito fine al conflitto, ma non ottenne risposta. Il 28 febbraio, dopo quattro giorni dell’inizio dell’invasione, si incontrarono a Gomel in Bielorussia una delegazione ucraina e una russa: i primi chiesero un cessate il fuoco e il ritiro dell’esercito invasore. Si concluse con un nulla-di-fatto. Alcuni analisti hanno sottolineato che difficilmente sarebbe stato diverso: la delegazione russa non aveva mandato un portavoce di spicco (non era presente nessun ministro chiave o che avesse un minimo di potere decisionale). Lo stesso giorno il presidente francese Macron chiamò Putin chiedendo di fermare gli attacchi contro i cittadini e le infrastrutture civili ucraine, in particolare strade e autostrade dove migliaia di persone si erano riversate per scappare dal paese. Putin rispose accusando i paesi occidentali di aver negato accordi per evitare l’inclusione dell’Ucraina nella NATO, di conseguenza l’intervento militare era statat la sua unica scelta. Ciò è interessante per tre motivi: da una parte riprende il concetto di Clausewitz, cioè laddove la soluzione diplomatica aveva fallito, una delle parti in causa aveva concepito la guerra come unica alternativa. Dall’altra, se il presidente russo attribuiva tutte le responsabilità agli occidentali ed era disposto a parlarne con il presidente francese ma non con quello ucraino, che possibilità avevano le delegazioni in Bielorussia di trovare una possibile soluzione di pace? L’Ucraina si presentava al tavolo dei negoziati ma sarebbe stata ignorata in quanto interlocutore non all’altezza? Il terzo motivo viene invece da rivelazioni pubblicate da Reuters (a Settembre) da tre fonti russe vicine al Cremlino: in quei giorni il deputato russo Dmitry Kozak avrebbe ottenuto un accordo con Kiev. In cambio della pace gli ucraini avrebbero rinunciato ogni pretesa di unirsi alla NATO e avrebbe ceduto parte dei territori investiti dal conflitto. Tale accordo sarebbe però stato rigettato dallo stesso Putin (qui la traduzione italiana).

Il 3 marzo si ebbe il secondo giro di negoziati. La richiesta della Russia all’Ucraina fu esplicita: riconoscimento dell’annessione russa della Crimea, riconoscimento dell’indipendenza di Donetsk e Lugansk, de-militarizzazione e de-nazificazione di tutto lo stato. Lo stesso giorno Zelensky chiese nuovamente pubblicamente di poter parlare con Putin. Nuovamente non ricevette risposta. Tuttavia le parti concordarono un’intesa per favorire dei corridori umanitari. Il 7 marzo si ebbe il terzo giro di incontri, anche in questo caso le uniche disposizioni riguardarono la disposizione di corridori umanitari fra le città che intanto venivano bombardate dall’artiglieria russa. Il 10 marzo si ebbe forse l’incontro più rilevante dall’inizio della guerra: i ministri degli esteri russo e ucraino, rispettivamente Sergey Lavrov e Dmytro Kuleba, si incontrarono ad Antalya in Turchia con la mediazione del ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu. Gli ucraini cercarono di negoziare un accordo di 24 ore per provvedere alle evacuazioni dei civili ma non ottennero nulla. In quei giorni ricordiamo come tutte le luci fossero puntate sulla città di Mariupol, che stava venendo rasa al suolo dalle truppe russe; il 16 marzo è la data del tristemente famoso bombardamento del teatro cittadino dove centinaia di civili erano lì riparati sperando di trovarsi in un rifugio sicuro. A fine marzo a Istanbul si tennero nuovi tentativi di negoziati. Anche questa volta non si ottennero risultati e furono ricordati per via di un possibile avvelenamento del celebre delegato russo Roman Abramovich e di quello ucraino Rustem Umerov. In quei giorni Zelensky chiese di poter parlare direttamente con Putin ma ebbe la risposta del ministro Lavrov che indicò come un incontro fra i due sarebbe stato possibile solo una volta che gli accordi dei negoziati avessero raggiunto i punti chiave. Interessante il commento del capo negoziatore ucraino Mykhaylo Podolyak in merito alle trattative: [trad.] «I russi stanno cambiando comportamento. Perché? Perché una cosa è negoziare pensando che domani conquisterai Kiev, un’altra cosa è negoziare quando stai combattendo da 30 giorni e non ci sei nemmeno vicino».

Negoziati, proposte e accordi

Ad aprile i colloqui sembrano assumere un drammatico arresto. Il 1 aprile i russi si ritirano dalla periferia di Kiev (appena 20 chilometri dal centro) e l’esercito ucraino avanzando nelle cittadine limitrofe scopre corpi di civili uccisi e abbandonati lungo le strade. Verrà ricordato come il “Massacro di Bucha” (qui una recente ricostruzione sottotitolata in italiano da Internazionale. Attenzione: immagini molto forti). Le immagini e i racconti dei testimoni hanno eco a livello mondiale. Non si sa quanto queste abbiano influito sui negoziati. Il 7 aprile il ministro degli esteri russo Lavrov accusa l’Ucraina di fare marcia indietro sugli accordi raggiunti fino a quel momento, di contro il capo negoziatore ucraino, Mykhaylo Podolyak nota come le parole del ministro siano propaganda in quanto non facesse nemmeno parte del team dei negoziatori. Entrambe le parti ribadiscono che i colloqui non si sono fermati.

L’11 aprile il cancelliere austriaco Karl Nehammer si incontra con il presidente russo Putin. È il primo incontro faccia-a-faccia con un capo di governo europeo a Mosca dall’inizio della guerra. Forse non tanto un tentativo di reale mediazione ma comunque una richiesta di far cessare il conflitto. Il 26 aprile anche il segretario generale delle nazioni unite, Antònio Guterres, vola a Mosca per parlare con Putin. Vengono esplicitate le intenzioni russe: vogliono un accordo per quanto riguarda Crimea e Donbass ma eludono le richieste di evacuare civili accusando gli ucraini di usarli come scudi umani. La proposta di Guterres era di istituire un gruppo coordinato fra ONU, la Croce Rossa, gli ucraini e i russi per permettere l’evacuazione dei civili da Mariupol e dall’acciaieria Azovstal. Qualche giorno prima il segretario aveva notato che con quell’invasione la Russia aveva ignorato molti trattati internazionali stipulati all’interno dell’ONU, di cui l’unione sovietica era una dei fondatori fin dalla fine della II guerra mondiale.

Il 13 maggio abbiamo un primo scambio telefonico fra Russia e America dall’inizio della guerra. Il segretario della difesa USA Lloyd Austin chiamò il ministro della difesa Sergey Shoigu. Non ci sono tanti dettagli in merito all’incontro ma fu un segnale di inizio dialogo fra le due potenze. Due giorni dopo ci fu invece l’incontro con i leader del CSTO (la “NATO” degli ex-stati sovietici) con Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Russia e Bielorussia. In questo frangente il leader russo chiese un fronte unito ai colleghi che invece evitarono del tutto di parlare dell’Ucraina decisi a non fornire il loro sostegno al conflitto. Il 26 maggio il presidente del consiglio Mario Draghi chiamò sia Putin che Zelensky, l’obbiettivo era cercare di sbloccare il problema del grano, cioè la distribuzione di questo bene e il suo passaggio tramite navi attraverso il Mar Nero. All’epoca fu considerato un tentativo vano.

A fine maggio si assistette a un evento interessante che sottolineò ulteriormente quanto la comunicazione sia complicata e possa venire spesso travisata. Intervenendo al forum di Davos, l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger consigliava al presidente Zelensky la possibilità di concedere ai russi i territori di Donbass e Crimea in cambio della pace, tuttavia pubblicò subito dopo una seconda intervista in cui segnalava come le sue parole fossero state travisate: l’Ucraina avrebbe dovuto riprendersi i territori e solo dopo sarebbero potuti partiti i cessate-il-fuoco e i negoziati di pace. Questo avvenimento mette in luce due narrazioni continuative dall’inizio del conflitto: la prima che indica come a gestire lo stato ucraino siano direttamente gli americani, il secondo che la Russia abbia diritto su quei territori. Il ruolo degli americani è certamente complesso e non sarà risolto nel presente articolo, aggiungendo anche l’idea che la Russia potrebbe prendere in considerazione solo la leadership americana, e non lo stato ucraino, in un eventuale negoziato finale di pace in qualità di potenza alla pari (cfr. “Putin. Una vita e il suo tempo”). La narrazione della perdita dei territori come scotto per la fine della guerra è una proposta che mette sullo stesso piano due stati che si contendono un territorio disabitato e che dividerselo è l’unica soluzione, senza tener conto dei confini, dei trattati precedenti in merito e della popolazione che abitava quei territori prima e durante il conflitto. Così anche Zelensky rifiutò la “proposta” di Kissinger di cedere i territori in cambio della pace, decisione che vedeva al momento il supporto dell’82% del popolo ucraino.

A luglio il presidente Putin disse, riferendosi ai negoziati, che non avevano ancora iniziato niente di serio ma che non avrebbero abbandonato le discussioni di pace. Aggiunse anche che più il tempo passava e più sarebbe stato difficile negoziare con loro. Ciononostante, lo stesso mese si raggiunsero nuovi accordi fra i due governi con la mediazione della Turchia e la supervisione dell’ONU: gli accordi del grano. Questi vengono firmati il 22 Luglio a Istanbul e prevedono il passaggio sicuro per le navi di entrambi i paesi che trasportassero grano e semi di girasole attraverso il Mar Nero in direzione di Africa e Medio-Oriente.

Ad Agosto, a seguito della fortunata controffensiva ucraina, il Consiglio di Sicurezza Russo si divise: chi spingeva il presidente a tornare a negoziati immediati con gli ucraini e chi premeva per continuare i combattimenti fino alla fine.

A metà settembre il presidente del Messico, Andrés Manuel López, tenne un discorso all’ONU per promuovere un gruppo d’azione col fine di raggiungere la pace. Tale gruppo doveva essere capitanato da lui, dal presidente indiano Narendra Modi e dal papa Francesco. La proposta fu respinta da tutti: dagli occidentali perché non salvaguardava gli interessi ucraini, e dai russi perché segnalavano come l’ONU non avesse mai preso nessun provvedimento precedente per monitorare il governo di Kiev. Interessante l’intervento del cancelliere cinese Wang Yi che domandò per una de-escaletion del conflitto con ispettori dell’ONU a sovrintendere la situazione affinché non venisse politicizzata dalle parti. Il 21 settembre assistiamo alla liberazione di 10 prigionieri di guerra stranieri da parte della Russia con intermediazione dell’Arabia Saudita, mentre il giorno successivo assistiamo all’enorme scambio di 300 prigionieri fra russi e ucraini con mediazione della Turchia. Il 21 settembre il presidente ucraino Zelensky intervenne con un video all’ONU in cui esprime diversi punti per la pace: in particolare insiste sul punire la Russia per l’invasione del territorio e le violenze perpetuate contro gli ucraini, e chiede sicurezza per l’integrità territoriale e la salvaguardia dei suoi cittadini, come previsto dai trattati ONU. Negli stessi giorni le autorità degli oblast soggetti a controllo russo, Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia, annunciarono dei referendum per annettere il loro territorio alla Russia. L’idea diffusa era che integrando quei territori nella federazione, l’Ucraina non avrebbe potuto riprenderne il controllo e un suo tentativo di riconquista armata sarebbe stato definito un attaccato sul suolo russo giustificando di conseguenza un intervento degli stati del CSTO o l’uso di armi nucleari. Non successe niente di tutto ciò, tant’è che l’11 novembre gli ucraini ripresero la città di Kherson. Tutt’ora è impossibile dare una valenza effettiva e legale ai referendum tenuti sugli oblast invasi. Malgrado ciò, a livello politico ebbero una grande risonanza fra i due stati: il 30 settembre, una volta firmata l’annessione Putin si disse volenteroso di rimettere in piedi i negoziati, mentre Zelensky disse che se avesse siglato quell’annessione trovare un accordo con il presidente russo sarebbe stato impossibile. Tale affermazione fu poi messa a legge il 4 ottobre: non sarà possibile avere un negoziato di pace con il presidente Putin. Questa decisione può avere più letture, ma la principale è mettere pressione alle forze politiche russe affinché cambino il leader in capo se vogliono ottenere un accordo stabile con gli ucraini, dato che questi ultimi ritengono di non potersi fidare dell’autocrate russo.

A ottobre, dopo mesi di posizioni per lo più distaccate, i rappresentanti di Cina e India chiesero per una de-escalation, a quanto pare colpiti dai nuovi attacchi missilistici russi contro infrastrutture civili. Il portavoce cinese Mao Ning disse che il più ampio supporto deve essere dato agli sforzi per raggiungere la pace, ma anche che ogni paese merita rispetto per la propria sovranità e integrità territoriale. A fine mese diverse testate riportano come dal Cremlino ci fossero discussioni riservate con paesi occidentali per l’ottenimento di un cessate-il-fuoco temporaneo. La strategia era influenzare i governi occidentali affinché premessero l’Ucraina di nuovo sul tavolo dei negoziati. Da una parte ciò sottolinea una certa preoccupazione nella leadership russa, soprattutto a seguito della riconquista ucraina di Kherson, della contro-offensiva di Kharkiv, più l’esplosione sul ponte di Crimea. Dall’altra si temeva che un cessate-il-fuoco temporaneo non fosse altro che un riprendere fiato per fortificare le posizioni prese e muovere nuove unità e mezzi sui confini. A fine mese si registrano diverse chiamate del ministro della difesa russo, Shoigu, con i leader di paesi occidentali. Non furono telefonate notevoli: riaffermavano le stesse denunce verso le forze ucraine e le minacce di escalation, tuttavia segnalano come le comunicazioni non si siano mai davvero interrotte fra le varie nazioni. Di ottobre si ricorda anche uno dei tentativi più lontani dalla diplomazia internazionale mai provati in un conflitto: il piano di pace su Twitter di Elon Musk che fu bocciato nel sondaggio dalla maggioranza degli utenti votanti [cit: The people have spoken]. A ottobre furono registrati altri scambi di prigionieri fra Russia e Ucraina: il 17 ottobre con la liberazione reciproca di circa 200 fra uomini e donne e il 19 ottobre con l’intermediazione dell’Arabia Saudita.

A inizio novembre l’amministrazione americana avrebbe consigliato a Zelensky di riavvicinare il tavolo dei negoziati col fine di acquisire nuova fiducia agli occhi internazionali. Pare che non ci sia stata risposta dal presidente ucraino, inoltre è da segnalare che questi consigli erano dovuti alle elezioni di mid-term in America: i democratici cercavano di rafforzare la propria immagine anche cercando di rinsaldare la crisi con la Russia. Il 15 novembre al summit del G20 il presidente Zelensky propose il suo piano di pace in 10 punti: sicurezza per nucleare ucraino, cibo, ed energia, il rilascio di tutti i prigionieri e deportati, re-integro del territorio e sovranità ucraina, ritiro delle truppe russe e cessione delle ostilità, giustizia, protezione dell’ambiente, prevenire ogni escalation, conferma della fine della guerra. Il ministro degli esteri russo Lavrov era presente durante il video proposta di Zelenski. Lo stesso giorno il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov disse ai giornalisti che riteneva la proposta non seria e che la Russia avrebbe continuato l’operazione militare fino al raggiungimento degli obiettivi. Il 19 novembre vennero rinnovati per altri 120 giorni gli accordi del passaggio sicuro per le navi cariche di grano e altri beni agricoli attraverso il Mar Nero. Di quei giorni sono rimasti anche gli incontri fra russi e americani fra cui il direttore della CIA, Bill Burns, e Sergei Naryshkin, capo del Consiglio di Sicurezza russo. Notevole anche l’intervento del generale americano Mark Milley che consigliava agli ucraini di preparare dei negoziati di pace il prima possibile in quanto al momento avevano raggiunto una forte posizione date le vittorie sul campo di battaglia. Questa è l’idea di come le conquiste ottenute si tramutino in punteggio politico ed è essenziale per inquadrare qualsiasi conflitto fra nazioni. Il generale Milley aggiunse anche come difficilmente l’Ucraina avrebbe potuto avere la meglio solo attraverso la forza militare. Il 24 novembre si segnala un altro scambio di circa un centinaio di prigionieri fra russi e ucraini, a cui ne è seguito un altro il 1 dicembre con negoziati intrapresi negli Emirati Arabi Uniti con supervisione dell’ONU.

È finalmente necessario segnalare un altro attore politico molto spesso citato fra i mass-media italiani: il Papa. Dall’inizio del conflitto ha indicato la pace come unica soluzione (nel senso più cristiano e filosofico del termine), sollecitando la fine del conflitto il prima possibile e proponendosi più o meno ufficialmente come mediatore per i colloqui, con fortune alterne. Il gelo sulla sua figura è arrivato a fine novembre, quando rilasciò un’intervista in cui riteneva che i soldati russi più crudeli fossero quelli di etnia buriata o cecena. In tal modo ha ricevuto le critiche del ministro degli esteri Lavrov che ha definito la sua uscita come “poco cristiana” e dalla portavoce degli esteri russa Zakharova che ha aggiunto come trovasse l’affermazione “più che russofoba”, addirittura “una perversione della verità”. Il giorno dopo, il 30 novembre, un attacco hacker ha colpito i media online del vaticano. Infine, il 12 dicembre il ministero degli esteri russo ha definitivamente escluso il Vaticano come sede per le mediazioni. Tre giorni dopo la Santa Sede ha mandato le scuse del Papa per le parole usate due settimane prima. Da allora sono continuate le esortazioni alla pace e alla preghiera ma non si è più dato adito a possibilità di intervenire ulteriormente o a pianificare possibili viaggi del pontefice a Mosca o a Kiev.

A inizio dicembre il presidente americano Biden si è detto disponibile a cominciare dei colloqui con il presidente russo Putin purché quest’ultimo ritirasse tutte le truppe dal territorio. La risposta venne dal portavoce del Cremlino Peskov che affermò che l’operazione militare speciale sarebbe proseguita fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi. Il 15 dicembre avvenne un nuovo scambio di prigionieri, sintomo che comunicazioni e accordi fra le due nazioni in conflitto non sono mai del tutto sparite. Il 26 dicembre il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba ha detto che prospetta un summit per la pace per fine febbraio con la mediazione dell’ONU. Idea subito respinta dalla Russia, poiché prevede anche l’obbligo per la nazione di andare a processo per crimini di guerra. Il segretario generale dell’ONU, Guterres, ha affermato che non è possibile prevedere la pace se entrambi i contendenti non si presentano assieme al tavolo. Nel discorso di Kuleba si registra la seguente frase: “ogni guerra finisce in modo diplomatico. E ogni guerra finisce come risultato delle azioni intraprese sul campo di battaglia e sui tavoli di negoziato”, che è ancora la continuazione della politica e della diplomazia con altri mezzi nella teoria di Von Clausewitz. La risposta del portavoce del Cremlino Peskov fu che il processo di pace sarebbe potuto iniziare solo con l’accettazione dei territori annessi con la campagna militare, cioè Crimea, parte del Donbass, Kherson e Zaporizhzhia.

A inizio gennaio si registra un nuovo accordo per uno scambio di circa 40 prigionieri fra Russia e Ucraina. A metà gennaio il direttore della CIA William Burns avrebbe proposto un accordo a Russia e Ucraina: quest’ultima avrebbe ceduto circa il 20% del suo territorio in cambio della pace. Questa proposta sarebbe stata rigettata da entrambe le parti: la seconda non vuole separarsi da nessuna porzione del proprio territorio mentre la prima è convinta di una conquista totale su un lungo periodo.

Il 4 febbraio 2023 è registrato finora l’ultimo scambio pubblico di prigionieri: circa 200 fra russi e ucraini.

Sulla pace, cioè fiducia e libertà

Come accennato all’inizio, gli accordi per raggiungere una pace sono molto complessi e delicati. Russia e Ucraina vogliono davvero la pace ma entrambi gli stati la vogliono ottenere dalla migliore posizione negoziale possibile e questa condizione potrebbe essere raggiunta solo tramite le vittorie sul campo di battaglia, o grazie alla coesione e al sostegno interno della stessa popolazione verso i loro leader politici. In questo senso si devono valutare tutta una serie di prerogative e soddisfare le parti in causa e i popoli delle rispettive nazioni: secondo i sondaggi, a settembre l’87% degli ucraini si opponeva alla pace se questa fosse dovuta a concessioni territoriali, dato confermato anche a febbraio 2023, mentre a novembre solo il 25% dei russi erano decisi a proseguire la guerra contro il 57%. In Italia il dibattito è stato monopolizzato fin dall’inizio sull’invio delle armi che il nostro paese non ha mai inviato in grandi quantità in Ucraina, con il 55% degli italiani contrario all’invio di armi a Kiev, seppur siamo fra i maggiori esportatori al mondo con un mercato di 4,6 miliardi di euro l’anno (qui i dati del 2021), e l’undicesimo paese al mondo per spese in armamenti. In questo senso i dibattiti sui media si sono rivelati incapaci nell’approfondire elementi indispensabili per comprendere al meglio il conflitto in corso districandosi da elementi di propaganda e muovendosi su una semplificazione riassumibile con: armi=guerra, no-armi=pace. Che è un parere assolutamente legittimo, se si esclude qualsiasi consapevolezza del mercato militare italiano, non includa alcuna empatia con il popolo colpito dal conflitto, e non si riassuma in una posizione di apatico “togliersene fuori” travestito a pacifismo. E questa pace non può essere solo una richiesta e una responsabilità delegata all’Ucraina.

E pace non è solo assenza di conflitto. Non c’è pace senza giustizia (min 3:30). Pace vuol dire sicurezza. E pace vuol dire libertà: libertà di idea, libertà di espressione, libertà di movimento, libertà di scelta. E pace significa anche fiducia. Decidendo di procedere con l’invasione la Russia ha eluso diversi concordati internazionali (fra cui il Memorandum di Budapest, il Protocollo di Minsk, o l’articolo 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite). Re-instaurare quella fiducia che i negoziati possano porre un’effettiva fine al conflitto fra i due stati sarà un altro passo che dovrà essere duraturo nel tempo. Al di là di un accordo messo nero su bianco, sarà la fiducia dei popoli e dei rispettivi leader che sentenzierà nel tempo l’efficacia o no di qualsiasi trattato di pace. E sebbene non sia il caso italiano, potrebbe valere anche per quelle popolazioni (vedi la richiesta di entrare nella NATO della Finlandia, o la nuova corsa agli armamenti della Polonia) che sono diretti confinanti con la Federazione Russa e che ora temono di non potersi più fidare.

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Fonti: il Post, Reuters, cnn, bbc, the Guardian, Aljazeera, Politico EU, Ansa, Huffingtonpost, Meduza, newsweek, Internazionale, New York Times, Ukrainska Pravda, Avvenire, Valigia Blu, La Presse, Interfax, Le Monde, El Pais, Il Foglio, Il Messaggero, abc, tagesspiegel.

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