Quando il caffè di cicoria si chiamava surrogato

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Negli ultimi tempi, complice la riscoperta dei prodotti biologici, ed in generale «naturali» in contrapposizione a quelli lavorati (o processati), si sta diffondendo, ed apprezzando da alcuni, il cosiddetto «caffè di cicoria» in sostituzione della nostra bevanda nazionale (il caffé… caffè) di cui un italiano su due consuma almeno una tazzina al giorno, preferibilmente al mattino, in casa o al Bar.

Malgrado la sua recente riscoperta non si tratta affatto di una nuova bevanda, visto che il caffè di cicoria, come surrogato del caffè, si è iniziato a produrre come alternativa economica al caffè già alla fine del 1700 e nel 1846 si contavano solo negli stati federali tedeschi quasi 3500 torrefazioni di cicoria.

Com’è fatto il caffè di cicoria?

Il caffè di cicoria è, a termini della Direttiva 1999/4/Ce, un «Estratto di cicoria», (anche in forma di «cicoria solubile» o «cicoria istantanea») cioè un «prodotto concentrato, ottenuto mediante estrazione dalla cicoria torrefatta, utilizzando l’acqua come unico agente di estrazione, ad esclusione di qualsiasi procedimento di idrolisi con aggiunta di acido o di base. Per cicoria si intendono le radici di Cichorium Intybus L., non utilizzate per la produzione di cicoria witloof (indivia belga ndr), opportunamente pulite per essere essiccate e torrefatte in vista della preparazione di bevande».

Non inganni il nome scientifico perché la Cichorium Intybus è solo la versione coltivata della cicoria comune: un alimento tipico della nostra cucina popolare al punto che nel 1863 (ma ne aveva già trattato Latini nel 1694) Achille Spatuzzi e Luigi Somma dell’Accademia Pontaniana, trattando dell’alimentazione del popolo minuto di Napoli affermavano che «la Cicoria (Cichorium Intybus) si usa abbondantemente presso di noi per minestra; e ve ne sono due principali varietà, la salvaggiuola, che contiene maggior quantità di sostanze amare, e quella che si coltiva nei nostri orti, che è più dolce e più tenera».

Dai germogli di una selezione della cicoria comune (la cicoria Catalogna o cicoria asparago detta popolarmente cicorione) si ricavano poi le «puntarelle» che soprattutto a Roma si consumano crude in insalata.

La ciofeca dello sport di Totò

Nel film di Sergio Corbucci del 1961 «I due marescialli», ambientato dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 nell’immaginario paesello di Scalitto, Totò interpreta il ladruncolo Antonio Capurro travestitosi da Maresciallo dei Carabinieri rubando la divisa al vero Maresciallo Vittorio Cotone, interpretato da Vittorio De Sica.

In una scena che si svolge in un fantomatico «Caffè dello Sport» del paese viene servito a Totò, nei panni del finto Maresciallo, un surrogato di cicoria al posto di un espresso e Totò, inorridito, si mette a sbraitare chiamando «ciofeca» la bevanda e «Ciofeca dello Sport» il piccolo e incolpevole locale di campagna.

Totò, che aveva già utilizzato la medesima «gag della ciofeca» sia in «Totò a colori» del ’52 sia in «Totò, Peppino e i fuorilegge» del ’56, non era, tuttavia, l’autore di questo termine onomatopeico visto che esso pare derivi dall’arabo ed in origine sembra indicasse una bevanda di ghiande tostate.

Da grande artista Totò non esitò a ripetere la gag sicuro del suo successo perché negli anni del secondo dopoguerra, quando l’Italia ritrovò il gusto del vero caffè, era ancora viva la memoria dei surrogati del caffé che il regime fascista, solo in parte a seguito delle sanzioni internazionali della metà degli anni ’30, aveva di fatto imposto alle classi meno abbienti trasformando il vero caffè in un lusso ed in un oggetto del mercato nero.

Un artificio narrativo, quello della mancanza del caffè sostituito dagli estratti di cicoria, che Fabrizio Silei ha utilizzato nei suoi romanzi gialli ambientati nella Firenze della fine degli anni ’30 per rivelare l’insofferenza popolare verso le restrizioni sui beni di prima necessità che il regime aveva imposto per preparare il Paese a quello sforzo bellico che negli anni ’40 l’avrebbe precipitato nella tragedia.

Per moltissimi italiani del secondo dopoguerra, quelli che nel periodo prebellico e bellico non si erano potuti permettere il caffè ed erano stati costretti ai surrogati, il caffè di cicoria divenne, quindi, indipendentemente dal suo gusto, una ciofeca, il simbolo di un passato di privazioni da dimenticare.

Il caffè di cicoria contemporaneo

Se oggi possiamo apprezzare le virtù salutari del caffè di cicoria lo dobbiamo ad un ingrediente occulto: la libertà di scegliere.

Liberato dalle costrizioni, dal suo essere un surrogato e quindi per definizione un prodotto di qualità inferiore, il caffè di cicoria può essere apprezzato per quello che è, può piacere o non piacere.

Un giorno, forse, ci renderemo conto di quale immenso regalo ci ha fatto la generazione precedente nel permetterci di scegliere il cibo che più ci piace e non quello che siamo costretti a consumare.

Foto di _ Artoxana da Pixabay

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