Carissimi, tutta la liturgia di questa Domenica ci parla di misericordia. In questo caso però, non accenniamo ad uno stato d’animo, ad un sentimento ma ad una Persona, a Dio stesso. E proprio nel Vangelo di questa Domenica Gesù vuole comunicarci, attraverso tre parabole, il grande amore che il Padre nutre verso di noi, uomini di buona volontà e popolo eletto pellegrinante nel tempo. Umanamente parlando però, l’amore e la fedeltà di Dio si scontrano con l’infedeltà dell’uomo la quale ebbe inizio nel Giardino dell’Eden, quando l’astuto serpente tentò i nostri progenitori. La voce del tentatore si ode forte ancora oggi quando gli uomini, impossessandosi indebitamente della fede, portano avanti una concezione personale di/su Dio, impoverendo sempre più la persona e la sua dignità. Il dio che queste teorie presentano è un dio falso e nulla di quanto esse insegnano corrisponde a verità. Il disagio che oggi attanaglia i cristiani deriva dal fatto che ogni qualvolta si cambia la verità su Dio necessariamente si oscura e si cambia la verità sull’uomo. In sintesi, dal vero volto di Dio nasce il vero volto dell’uomo; di conseguenza, il vero volto dell’uomo mostra e rivela il vero volto di Dio. E quello di Dio è il volto di un Padre misericordioso. La prima lettura è una dura condanna che Dio vuole imputare al peccato di idolatria e nello stesso tempo è una requisitoria contro la classe sacerdotale che, rappresentata da Aronne, si è dimostrata incapace di tutelare e custodire, in assenza di Mosè, la purezza religiosa. Infatti, il gesto di Israele, accompagnato da una liturgia idolatrica, scatena l’ira divina che vorrebbe distruggere ed annientare il popolo ribelle. Mosè allora, si riveste della funzione di intercessore e per “addolcire il volto del Signore” innalza a Dio una supplica composta da tre argomenti. Due di essi sono di natura storica (la promessa fatta ai Padri), l’ultimo è apologetico; si vuole difendere infatti, l’onore di Dio presso gli Egiziani. Mosè infine, placa l’ira di Dio e si avvia verso l’accampamento in festa, scendendo dal monte. Non accenniamo al seguito perché è disastroso; ciò che a noi interessa invece, è che “il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo” (Es 32,14). La seconda lettura, che allo stesso modo ci parla di misericordia, è una lettera che l’apostolo Paolo scrive a Timoteo, suo intimo collaboratore e compagno, additato come modello per chi viene posto a capo di una comunità ecclesiale. In questa lettera viene rievocata, con termini autobiografici e carichi di rimorso, la vicenda personale della conversione di Paolo; il versetto 15 custodisce un piccolo credo, cuore dello scritto ed elemento che attesta la validità dell’insegnamento evocato: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori”. Cristo dunque, è l’immagine vivente del Dio che perdona e del Dio misericordioso. Le parabole che Egli racconta rappresentano un metodo efficace per consegnare ai suoi uditori la Buona Novella. Il Vangelo di oggi, nelle tre parabole raccontate da Gesù, ci parla di gioia: quella della pecora ritrovata, della moneta reperita e del figlio ritornato alla casa paterna. Proprio quest’ultima ci svela le tante dinamiche che costituiscono il rapporto tra Dio e le sue creature. La relazione con Dio, – afferma Benedetto XVI – si intesse attraverso una storia, come quella che ogni figlio vive con i propri genitori: inizialmente essa dipende da loro; poi i figli, man mano che crescono, rivendicano una certa indipendenza e infine, essa sfocia in un rapporto maturo, costruito sulla riconoscenza e sull’amore autentico. Nella vicenda del figliol prodigo possiamo rivedere le varie fasi del nostro rapporto con Dio. Una prima fase è rappresentata dall’infanzia: in essa prende le mosse una religione che chiede dipendenza; successivamente l’uomo (seconda fase) vuole diventare libero, adulto, capace di organizzarsi da sè e di fare le proprie scelte autonomamente, anche senza Dio; questa fase è molto delicata e spesso può sfociare nell’ateismo. Nella parabola del figliol prodigo infatti, i due figli ostentano un atteggiamento opposto: il minore lascia la casa paterna e cade sempre più in basso, mentre il maggiore rimane a casa instaurando con il Padre una relazione immatura; infatti, quando il fratello rientra, il maggiore non è felice come il Padre, anzi, si adira tanto che non vuole nemmeno rientrare in casa. I due figli sono immagine di due modi immaturi di rapportarsi con Dio: l’uno è icona della ribellione, l’altro mostra un’obbedienza infantile. A riscattare queste due dimensioni è l’esperienza della misericordia; infatti, solo perdonando di cuore e riconoscendosi amati di un amore gratuito possiamo gustare la gioia di un rapporto veramente filiale e libero con Dio. Anche noi, una volta rientrati nei nostri ambienti, rispecchiamoci nei due figli, ma soprattutto contempliamo il cuore del Padre. Gettiamoci tra le sue braccia paterne e lasciamoci avvolgere dal suo amore misericordioso. Dobbiamo nutrire la certezza che Dio è fedele e, anche se noi ci allontaniamo, Egli ci segue perdonando i nostri errori e parlando interiormente alla nostra coscienza. E con il Papa, chiediamoci: “Che cosa sarebbero la nostra cultura, l’arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio Padre pieno di amore e di misericordia?”
Fra Frisina
Nell’immagine l’opera “Ritorno del figliol prodigo” di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino
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