«Non c’è trippa per gatti». Chissà quante volte vi sarà capitato di sentire, o magari di dire voi stessi, questo detto popolare che ha il senso di «è finita la pacchia», ma come nasce? E cos’è realmente la trippa?
La trippa
La trippa è l’apparato digerente dei ruminanti, ed in particolare dei bovini, che si divide in quattro parti: tre prestomaci (rumine, reticolo e omaso) e lo stomaco vero e proprio (abomaso).
Dal punto di vista nutrizionale è una carne magra, con solo il 5% di grassi, formata prevalentemente di collagene e con un buon contenuto di ferro, sodio, potassio e fosforo, insieme a vitamine del gruppo B.
Il suo consumo è antichissimo: nell’antica Grecia pare si cucinasse alla brace, mentre i Romani vi farcivano, secondo quanto attesta Marziale, della particolari salsicce.
Ancora più antiche le preparazioni della trippa nella cucina araba, di origine persiana, ed in quella ebraica.
Tradizioni che s’incontrano nella palermitana «trippa a’ livitana» in cui l’umile trippa si unisce al Re delle spezie, lo zafferano, reintrodotto in Italia dagli arabi dopo che la sua coltivazione in epoca romana era andata perduta.
Il costo contenuto, unito ad un discreto valore nutritivo, hanno fatto della trippa uno degli alimenti più apprezzati nella cultura popolare, simbolo di pasto abbondante e saziante, e non c’è regione che non abbia una o più ricette tradizionali della trippa: asciutta o in zuppa come la busecca milanese, in bianco o con la salsa di pomodoro.
Dalla metà del 1200, peraltro, la trippa ha trovato ingresso anche nella cucina colta e così si possono trovare ricette con la trippa nel «Liber de coquina», la prima raccolta di scritti di cucina in lingua volgare, nel quattrocentesco «Libro de Arte Coquinaria» di Maestro Martino e nel cinquecentesco «Libro Novo» di Cristoforo di Messisbugo.
Più tardi sarà a cucina transalpina, soprattutto con Escoffier e Henri de Toulouse-Lautrec, a nobilitare questo alimento popolare, che invece Pellegrino Artusi riteneva «ordinario», rivalutando preparazioni come «les Tripes à la Mode de Caen», che peraltro si usano acquistare già pronte.
Trippai e carnacciari
Per ovviare alla rapidità del suo decadimento, specie prima dell’avvento della refrigerazione, la trippa, una volta finita la macellazione, veniva affidata ai trippai, che la pulivano e la bollivano vendendola già cotta ed ancora oggi la trippa viene prevalentemente venduta nelle macellerie precotta.
Sino al secondo dopoguerra la trippa invenduta veniva presa in carico dai carnacciari, di cui ha lasciato testimonianza una stampa di Bartolomeo Pinelli, che la vendevano ai padroni di cani e gatti, o, compensati da alcuni benefattori con piccole mance, la distribuivano ai randagi attirati con un tipico fischio detto a Roma «sordino».
Lampredotto e trippa alla romana
Il lampredotto fiorentino e la trippa alla romana sono probabilmente le due maggiori espressioni della trippa.
Le origini del lampredotto risalgono al 1400 ed il suo nome richiama quello della lampreda, un pregiato pesce di fiume che una volta popolava l’Arno. Preparato lessando le due parti dell’abomaso: la gala, scura e arricciata, e la spannocchia, chiara, grassa e liscia, ancora oggi si può gustare dai trippai dei lungarni che vi farciscono, assieme alla salsa verde ed al brodo di cottura, i tondi panini bianchi detti sèmelle, mutuati dai Semmeln bavaresi e dai Wiener Kaisersemmel.
Quanto alla trippa alla romana, resa famosa dalla Sora Lella, se ne trovano tracce e ricette già nel settecentesco «Apicio Moderno» di Francesco Leonardi, sia nella versione in bianco, sia in quella con la salsa di pomodoro, entrambe caratterizzate dall’uso della menta romana, sia infine in una versione marinata e poi fritta in pastella e guarnita con prezzemolo e foglie di menta fritte.
Fogli protocollo, topi e bilancio capitolino
Da quando la carta ha sostituito la pergamena i nemici principali degli archivi sono i topi che ne sono ghiotti: il foglio protocollo, simbolo dei compiti in classe e dei documenti legali, è nato proprio con lo scopo di centrare il testo salvandolo, almeno parzialmente, dai danni dei roditori.
Per proteggere i documenti più importanti s’incentivò allora la presenza negli archivi di folte colonie feline e quando a Roma, ai primi del ‘900, s’insediò il Sindaco Nathan, famoso per il suo rigore, e volle esaminare il bilancio capitolino, grande fu la sua sorpresa nel notare che i gatti capitolini venivano alimentati dai carnacciari a carico delle pubbliche finanze.
Leggenda vuole che egli stesso depennasse la voce di bilancio e la sostituisse l’espressione: «Non c’è trippa per gatti!» a decretare che da quel momento in poi i gatti il sostentamento dovevano trovarselo da soli cacciando i topi.
Fu inutile, perché i gatti si limitarono a sloggiare dal Campidoglio affollando i Fori dove furono amorevolmente curati da signore benestanti dette a Roma gattare.
Qualche anno dopo fu Trilussa in «Romanità» a raccontare l’epilogo di questo vano tentativo di moralizzazione: «Un giorno, ‘na signora forastiera passanno cor marito, sotto l’Arco de Tito, vidde ‘na gatta nera spaparacchiata fra l’antichità. “Micia, che fai?”, je chiese e je buttò un pezzettino de biscotto ingrese, ma la gatta, scocciata, nu’ lo prese e manco l’odorò. Anzi la guardò male e disse co un’aria strafottente: “Grazzie, madama, nun me serve gnente: io nun magno che trippa nazzionale!”».
La battaglia della «trippa di cittadinanza» alla fine l’avevano vinta i gatti.
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