Pensando al difficile contesto geopolitico attuale e alla luce del ritorno dei Talebani a Kabul nel 2021, rileggere Mille splendidi soli di Khaled Hosseini fa un effetto particolare. Attraverso la vicenda appassionante di due donne dalla straordinaria capacità di resistenza agli urti della vita, il romanzo ci conduce nel cuore di un dramma storico che, sebbene non sia più illuminato dai riflettori dei media, ancora non ha visto l’epilogo. La condizione difficile del popolo afgano, in particolare delle sue donne.
La forza della Storia
In Mille splendidi soli c’è la Storia con la “S” maiuscola. Le vicissitudini politiche dell’Afghanistan tra gli anni Settanta e i primi anni Duemila entrano con forza nelle vite di Mariam, Laila e di tutti gli altri protagonisti del libro. Determinano il loro destino, complicano i loro percorsi. Li sottopongono a perdite dolorosissime, li feriscono — talvolta in maniera irreversibile — nel corpo e nell’anima.
Senza la Storia questo romanzo non sarebbe possibile. E descriverla nelle ricadute che ha sulle vite dei singoli, oggi come non mai, serve anche a ricordare al lettore che le guerre, seppur diverse, rappresentano tutte un attentato alla dignità dell’uomo: dell’uomo-individuo come della specie umana. Attentato di fronte al quale chi subisce non può far altro che attingere alla propria capacità di resistere e sopportare. Capacità che può essere sostenuta solo dalla nostalgia di ciò che di bello è andato perduto e da un’intramontabile speranza per un futuro migliore.
La storia Mariam
Poi ci sono le storie con la “s” minuscola. Storie individuali, di quelle che in genere sopravvivono di poco ai loro protagonisti, ma che messe insieme determinano la cifra di un popolo. Storie come quella di Mariam: una bambina povera che diventa una ragazza rifiutata e poi una donna maltrattata. É la figlia illegittima di un padre vigliacco che saprà solo deluderla e l’unica ragione di vita di una madre instabile che non fa che demolirla per tenerla attaccata a sé.
La sua è una storia crudele, fatta di privazioni e di violenze imposte soprattutto da chi dovrebbe amarla. La madre, il padre, il marito, i figli mai nati la feriscono più della guerra e della povertà. E quando finalmente un po’ d’affetto arriverà anche per lei, Mariam si dimostrerà pronta a un grande sacrificio pur di difendere le persone che hanno dimostrato di volerle bene. Nel sacrificio troverà il suo valore, il riscatto al suo ingresso nel mondo come «cosa indesiderata». Questo le darà il coraggio di affrontare il suo destino.
La storia di Laila
Tuttavia, pur essendo estremamente coinvolgente per la sua carica umana, la vicenda di Mariam ci dà sempre l’idea di appartenere a un’altra realtà, poiché estremamente radicata nel suo contesto storico-culturale particolare. Al contrario, nella vita di Laila possiamo riconoscere quella delle adolescenti di tutto il mondo. È giovane, intelligente, bella e innamorata. Ha un padre che la spinge a studiare e che sogna per lei una vita da donna libera. Ha delle amiche con cui si confida e con cui percorre ogni giorno la strada da scuola a casa. Ha un amico d’infanzia, Tariq, che crescendo diventa l’amore della sua vita e che sogna di sposare. La sua esistenza non è costellata di kolbe costruite in mattoni crudi e di mullah che insegnano il Corano come quella di Mariam.
Al netto dei fratelli mujahidin e della gamba persa di Tariq a causa di una mina antiuomo, si ha spesso l’impressione che l’infanzia e la prima adolescenza di Laila avrebbero potuto avere luogo ovunque. Questo fatto ci fa apparire ancora più drammatico il modo in cui la Storia la travolge. All’improvviso Laila si ritrova sola, in una Kabul desolata e irriconoscibile. La sua città è diventata una prigione spaventosa da cui sembra impossibile fuggire. «Non riconosco più Kabul» le dirà Tariq. «Neanch’io. Eppure sono sempre rimasta qui» risponderà lei.
L’importanza della testimonianza
Lo sguardo di Laila e quello di Mariam sono canali attraverso cui notizie giunte da un mondo lontano si fanno carne, sangue e lacrime percepibili anche per chi è distante chilometri e chilometri, anni e anni dalle circostanze che caratterizzano la narrazione. E proprio questo è l’intento dello scrittore. Lo dichiara fin da subito nella Prefazione al libro: «Spero che questo romanzo sappia aggiungere un sottotesto profondo, fatto di sfumature ed emozioni, all’immagine ormai familiare di donne avvolte nel burqa che camminano lungo una strada polverosa». Fornire un sottotesto. Testimoniare. Dare sostanza alla forma. Spingere alla conoscenza, all’approfondimento. Raccontare verità profonde pur servendosi dell’immaginazione. Ma in fondo, non è questo il mestiere della letteratura?
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