Nel suo discorso d’insediamento, Donald Trump ha ribadito l’intenzione di stringere alleanze militari “per unire il mondo civilizzato contro il terrorismo degli estremisti islamici, che cancelleremo dalla faccia della Terra”. Se tali alleanze, nell’area Siria-Iraq non possono prescindere dalla Russia di Putin, è anche vero che una linea politica in tal senso potrà contare a occhi chiusi sullo Stato d’Israele, storico avversario del terrorismo islamico.
Con Barack Obama, le relazioni USA-Israele avevano toccato il fondo, sancito dalla storica astensione degli Stati Uniti che ha consentito per la prima volta al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condannare Israele per gli insediamenti nei territori arabi occupati nella Cisgiordania. Al contrario, il dietro-front di Donald Trump vede, dietro le quinte, il lavoro – nemmeno tanto oscuro – di alcune importanti personalità filo israeliane.
Jared Kusher, il genero di Donald Trump
La prima è il trentacinquenne Jared Kushner, figlio di un’influente famiglia ebrea ortodossa di costruttori del New Jersey, che è addirittura il genero del nuovo Presidente, avendone sposato la figlia Ivanka, nel 2009. Durante la campagna elettorale, Kushner è stato il consigliere più ascoltato di Trump che avrebbe voluto affidargli un incarico di governo ma la sua nomina è stata bloccata da un regolamento che impedisce ai pubblici ufficiali di assumere parenti nell’agenzia in cui lavorano.
Jared resta comunque la voce più ascoltata da Trump; pertanto, è fondamentale tener conto – in proposito – che la fondazione della sua famiglia, in passato, ha donato decine di migliaia di dollari per progetti di insediamento ebraico nei Territori occupati. Inoltre, sembra che la famiglia Kushner sostenga finanziariamente anche il seminario rabbinico di Bet El, uno dei più estremisti, il cui rappresentante a New York è tale David Friedman che, guarda caso, Trump ha appena scelto come nuovo ambasciatore USA in Israele.
Il nuovo ambasciatore si insedia a Gerusalemme
La prima dichiarazione di David Friedman è stata quella di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv «nella capitale eterna di Israele, Gerusalemme». All’orecchio del profano, quella di Friedman sembrerebbe una dichiarazione come tante. In realtà, prima della Guerra dei Sei Giorni (1967) – che ha avuto come effetto l’occupazione israeliana della Cisgiordania – il centro storico di Gerusalemme era sotto il controllo giordano-palestinese. La sua proclamazione a capitale di Israele, al posto di Tel Aviv, non è stata riconosciuta né dall’ONU né da altri Stati di Oriente o Occidente.
L’ambasciata americana era rimasta a Tel Aviv, così come tutte le altre (Italia compresa), essendosi sinora ritenuto che lo status di Gerusalemme possa essere definito solo attraverso negoziati di pace tra israeliani e palestinesi. Soprattutto, perché i musulmani palestinesi, mai e poi mai, potrebbero accettare l’annessione, da parte di Israele, della terza città santa dell’Islam (dopo La Mecca e Medina). Ma, con Donald Trump – a quanto pare – l’opinione dei musulmani palestinesi vale meno di un dollaro bucato.
Le reazioni di Netanyahu all’avvento di Trump.
Il neo ambasciatore Friedman ha inoltre dichiarato di considerare perfettamente legali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e che Trump sia favorevole all’annessione israeliana di parti della Cisgiordania, pur essendo ciò in contrasto con l’opinione pubblica mondiale, quanto meno quella filo-musulmana. Più volte, in passato, inoltre, Friedman, si è espresso contro la soluzione di pace dei due Stati (Israele e Palestina, entrambi indipendenti e sovrani), come previsto dall’ONU, sin dal 1947.
In coerenza con il quadro descritto, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, dopo il giuramento del nuovo Presidente, ha avuto un colloquio telefonico con Donald Trump e ha subito autorizzato la realizzazione di altri 2500 alloggi nei maggiori insediamenti ebraici, già esistenti in Cisgiordania, alla faccia del parere contrario di poche settimane prima, del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, emesso grazie all’astensione degli USA della Presidenza Obama.
Il quadro ora è chiaro
Si delinea quindi, per la prima volta, una situazione estremamente chiara di quale sarà il futuro dell’area israelo-palestinese, per i prossimi decenni. Un unico Stato sovrano dal Mediterraneo alle sponde del Fiume Giordano: Israele. La striscia di Gaza, attualmente sotto il controllo di Hamas, cioè un’organizzazione considerata terroristica, se Donald Trump darà corso al suo programma elettorale – come sembra che stia facendo punto per punto e come gli suggeriscono i suoi consiglieri – sarà “cancellata dalla faccia terra”.
Si presume, inoltre, che gli Hezbollah, l’organizzazione paramilitare libanese ma filo-palestinese, non potrà che essere completamente disarmata, pur essendo alleata di Assad e, dunque, di Putin. I palestinesi di Cisgiordania infine (se non vorranno definitivamente emigrare all’estero), saranno relegati in piccoli distretti sovrappopolati, simili ai bantustans del Sudafrica dell’apertheid.
Una soluzione estremamente negativa per il popolo palestinese che, nei prossimi anni, non potranno far altro che rimpiangere la proposta di Trattato di pace presentata nel 2001 dall’allora premier israeliano Ehud Barak che prevedeva il riconoscimento dello stato palestinese sul 95% della Cisgiordania e l’internazionalizzazione di Gerusalemme Est. Una proposta allora non andata in porto perché sdegnosamente rifiutata dal leader palestinese Yasser Arafat.
[…] un trattato di mutua difesa con la Giordania. La reazione di Israele – con l’assenso degli Stati Uniti – fu […]