È uscito da poco l’ultimo film di Pinocchio e ancora una volta si torna a parlare del burattino con il cappellino a punta e il naso che si allunga a suon di bugie. Le biglietterie stampano file e file di ticket, i popcorn scricchiolano tra i denti nel buio delle sale cinematografiche, centinaia di occhi incantati entrano nella bottega di Geppetto e i nasi quasi quasi sentono l’odore pungente del legno…
Reduci da un Natale di pandori e panettoni, sono tanti quelli che vogliono gustare la magia della fiaba eterna e rocambolesca che tutti conoscono anche senza averla mai letta. Pinocchio è famoso in tutto il mondo, ma in Italia è una specie di istituzione, praticamente ce l’abbiamo nel sangue: il Parco di Collodi, le statue, le pellicole, le riproduzioni del burattino reperibili in ogni negozio di souvenir della Toscana… C’è perfino un asteroide che nel 1999 è stato battezzato Pinocchio.
Un successo esplosivo e senza tempo che ci fa quasi sorridere se pensiamo che quando Collodi (alias Carlo Lorenzini) pubblicò per la prima volta la fiaba la definì una «bambinata», scritta giusto per racimolare qualche soldo e pagare qualche debito. Eppure la fortuna non tardò a arrivare e fu un bellissimo imprevisto. Collodi voleva concludere l’opera con Pinocchio che penzolava dalla Grande Quercia e i suoi piccoli lettori lo pregarono di continuare la narrazione. Allora scrisse nuovi capitoli e venne fuori uno dei capisaldi della letteratura di formazione dell’Italia post-risorgimentale.
Nella fiaba ogni cattiva azione è immediatamente seguita da una punizione esemplare e ogni gesto meritevole viene subito premiato. Disubbidienza e meritocrazia stanno alla base della storia, la ribaltano continuamente e subordinano la sorte alle scelte, proprio come nel più grande libro di formazione di tutti i tempi: la Bibbia.
I riferimenti biblici sono disseminati in tutta l’opera. Uno dei più vistosi è l’episodio di Pinocchio nella pancia del pescecane, che richiama la vicenda del profeta Giona riportata nell’Antico Testamento.
«Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi […] in che mondo fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaro pieno d’inchiostro». Siamo nel punto più nero della storia del burattino, e non solo perché è nel corpo di un mostro marino e manca la luce. Pinocchio tocca il fondo, le cose non possono andare peggio di così. Piange e cerca aiuto come Giona, che dopo essere stato punito per aver disubbidito a un ordine divino, nel momento più buio e angoscioso della sua esistenza, prega di essere tirato fuori dal ventre del pesce. Implora Dio, il Padre offeso ma anche infinitamente misericordioso: «Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto, dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce».
Il Padre gli concede il perdono, proprio come Geppetto perdona senza esitazione Pinocchio per tutte le sue monellerie. In entrambi i casi la riconciliazione arriva lì, nel fondo oscuro oltre il quale c’è solo la morte. Nella fiaba di Collodi l’incontro tra Pinocchio e il suo babbo
viene anticipato da una luce che illumina una tavola apparecchiata a cui è seduto «un vecchiettino tutto bianco».
Si tratta della luce calda di una sistemazione di fortuna, porzione e sintesi di quella immensa dell’Amore divino che si manifesta laddove tutto sembra perduto. In questo episodio il collegamento tra il «povero babbo» e l’Onnipotente si rafforza più che mai. Non dimentichiamo che Geppetto costruisce il burattino maneggiando materia viva, come il Creatore quando plasma Adamo. Tuttavia, pur essendo piccolo specchio dell’Artigiano Celeste, resta sempre un essere umano, un uomo semplice che ha troppa paura di abbandonare l’angolo apparentemente sicuro che si è ritagliato nella pancia del pescecane per tentare la conquista della libertà gettandosi in mare aperto. È Pinocchio a spronarlo. Anche se oggettivamente è troppo leggero per farsi carico di un peso così gravoso, si offre al padre come scialuppa vivente: «Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle, e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia».
A questo punto troviamo un protagonista completamente nuovo, cresciuto, responsabile. Al contrario di Giona, che dopo essere stato vomitato dal mostro marino tornerà a mettere in discussione le azioni di Dio, Pinocchio ha imparato la lezione e dentro di sé è già un bambino pronto a diventare grande. Si prende cura del padre anziano, lavora per guadagnarsi il latte che servirà a nutrirlo, rinuncia a comprare il vestito nuovo per aiutare la Fata Madrina ricoverata allo Spedale… A questo punto, diventare in carne e ossa è solo la formalizzazione di una condizione interiore già acquisita attraverso mille peripezie, un premio definitivo per una maturazione da cui non si torna più indietro.
Si può dire che Pinocchio scelga la strada più difficile per diventare un bambino vero. Decide di errare — sia nel senso di sbagliare che di vagare alla cieca — per diventare la versione migliore di se stesso. Eppure gli strumenti per essere un bravo bambino li avrebbe avuti fin dall’inizio. I consigli del Grillo Parlante, quelli della Fata Madrina, l’esempio del padre povero che vende la giacca per comprargli l’Abbecedario e gli dà la possibilità di andare a scuola… Ma se Pinocchio si fosse limitato a ascoltare gli altri senza fare esperienza di tutti i guai derivanti dalla sua disubbidienza avrebbe capito davvero la lezione o avrebbe dato semplicemente per buona una lezioncina? Questo è uno dei problemi più grandi che la fiaba — come la vita — pone. È il dilemma davanti a cui si trovano davanti tutti i genitori: proteggere sempre e comunque i figli o lasciare che corrano il rischio per guadagnare in esperienza? La risposta sta in un equilibrio quasi mitologico, difficilissimo da trovare e diverso da caso a caso. La ricerca non finisce mai, e nel frattempo l’unica cosa che certamente una madre e un padre possono fare è essere l’angolo luminoso nella pancia del pescecane, dove abitano il perdono e la comprensione, dove il bambino trova sempre una mano tesa quando tutto è perduto e il buio sembra un baratro senza fine.
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