La fede oggi ci interroga e ci chiede il coraggio di saper osare

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Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo”. Sono queste le prime battute della pagina evangelica (Mt 25,1-13) proposte oggi dalla liturgia. Attorno a questo brano, i teologi fanno nascere alcune interpretazioni: alcuni sostengono che la narrazione, tramandataci solo dalla redazione del Vangelo di Matteo, sia un’allegoria cioè, un racconto simbolico i cui particolari (lo sposo, le ragazze, l’olio, le lampade, la notte, il venditore dell’olio, la porta della sala del banchetto) rivestono un significato ben preciso; altri esegeti sostengono, invece, che si tratti chiaramente di una parabola cioè, di una similitudine che lancia un messaggio importante.

 

Già da una prima lettura si evince chiaramente che il racconto di Matteo è costruito su una serie di opposizioni: cinque sono le vergini “sagge” e cinque sono quelle “stolte”; cinque possiedono olio e lampade e cinque solo lampade; nel momento in cui arriva lo sposo, le prime si trovano ad avere ancora olio a disposizione, le altre invece no; infine, quelle con l’olio accedono al banchetto, le altre, invece, rimangono fuori.

 

Cosa vuol comunicarci Matteo, tramandandoci una narrazione così articolata? Certamente vuole offrire il suo punto di vista circa la persona di Gesù, ma anche accompagnare la sua comunità cristiana, nata da ebrei convertiti alla fede in Gesù Cristo, a scoprire le proprie radici e, quindi, a prendere maggiore consapevolezza della loro nuova identità che si trova a professare Cristo come l’unico Messia, lo Sposo che vuol celebrare le sue nozze con il popolo di Dio. La ‘festa di nozze’, in Matteo, è il progetto che Dio ha riservato per ogni uomo. Partecipare pienamente alla festa di nozze – ci dice la parabola – significa essere responsabili delle proprie scelte e ostentare fermezza nelle grandi decisioni.

 

Ma attenzione! Leggendo la parabola delle dieci vergini si può incorrere in un rischio, quello di soffermarsi al timore che essa incute (per es. la paura che lo sposo possa arrivare da un momento all’altro, trovandoci impreparati), piuttosto che al suo scopo, quello cioè di accompagnarci a ‘scegliere bene’ per poter sperimentare la gioia (in altri termini, provvedo a procurarmi l’olio, così le lampade non potranno spegnersi). Matteo narra questa parabola per ‘rasserenare’ i membri della sua comunità; dal momento che, essendo ebrei, si chiedevano più volte ‘come’ sarebbe arrivato lo Sposo, ‘quando’ e se, all’occorrenza, lo avrebbero riconosciuto.

 

La risposta dell’evangelista è molto chiara: lo sposo non arriva al termine della notte, non giunge all’alba; Egli è già là e bisogna andargli incontro nel cuore della notte. Proviamo ad analizzare brevemente il testo: il grido improvviso “Ecco lo sposo, andategli incontro” è posizionato al centro di tutto il brano evangelico. È un grido questo, di liberazione, innalzato per il popolo oppresso dai romani e in balìa delle prolisse teorie degli scribi e dei farisei. È un grido questo, di rivoluzione, innalzato per cambiare una volta per tutte l’intero corso della storia.

 

I Greci concepivano la storia come un continuo ripetersi di eventi, attribuendo al tempo una concezione ciclica, circolare (tutto si ripete); gli Ebrei, invece, consideravano la storia come il risultato di una relazione, quella tra Dio e l’uomo, affidando al tempo una concezione lineare (si nasce da Dio per ritornare a Dio). Attraverso la parabola delle dieci vergini Cristo chiama alla sua festa la storia e il mondo. Per i cristiani, quindi, la storia non è più chiusa in se stessa (concezione greca), non è più una linea che va verso la fine (concezione ebraica), ma è una dimensione nuova, intrisa di mistero e di fascino, che si apre generosamente all’eternità.

 

Il problema, carissimi, è accogliere l’invito alla festa, saper riconoscere in Gesù il sacrificio per eccellenza che si immola liberamente per acquistare da Dio la gioia dell’umanità. Il problema è possedere la luce per camminare nelle tenebre, avere l’olio della fede per accogliere nella propria esistenza l’inviato di Dio, Cristo. La parabola delle vergini sagge e stolte fa parte del grande discorso escatologico, il cui scopo è quello di mantenere viva la certezza del ritorno del Signore e di suggerire come comportarsi nel tempo dell’attesa. San Paolo ce lo ricorda nella seconda lettura (1Ts 4, 13-18). E i pericoli possono essere due: vivere l’attesa in maniera ansiosa, dimenticando gli impegni nel mondo, oppure vivere l’attesa in maniera superficiale, badando solo agli impegni presi. Matteo ci mette in guardia: “Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora”.

 

L’esperienza cristiana, però, non si basa sulla paura o sull’ansia; tutt’altro, essa è un’esperienza di amore, quell’amore che supera l’abitudine, che non invecchia e che – come dice il Cantico dei Cantici – “veglia sempre, poi ascolta, cerca, perde, trova”. Chi vive l’amore in questi termini vede ed ama il mondo con occhi nuovi, lo trasforma. La fede, dunque, oggi ci interroga e ci chiede il coraggio di saper osare, di scegliere, di responsabilizzarci e di responsabilizzare ed infine, di gustare la gioia dell’amore inesauribile di Dio. La parabola insegna ad essere sempre pronti, anche al ritardo dello sposo. Essa ci invita ad essere saggi e ad incarnare la Sapienza così come ci viene presentata nella prima lettura di oggi (Sap 6, 12-16), come “un dono che discende da Dio” e proprio perché “dono” essa va “cercata” e “desiderata”.

 

Affidiamo questa ‘dolce ricerca’ a Maria, la dimora più degna della Sapienza. Da Lei, impariamo a desiderarLa, perché con l’olio della fede, con il coraggio di amare e con le armi pacifiche della speranza, accogliamo docilmente la venuta dello Sposo che ci invita continuamente al banchetto delle sue nozze.

 

Fra’ Frisina

 

Foto: funweek.it

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