Il nome di John Dee è rimasto per secoli scolpito nell’intricato labirinto degli arcana e dei segreti del Rinascimento. Angelologo e astrologo di corte della regina Elisabetta I d’Inghilterra, Dee si spinse oltre i confini conosciuti del tempo e dello spazio.
La sua storia è quella di un viaggiatore intraprendente tra i mondi, un cercatore di verità oltre i confini della comprensione umana. La sua ossessione per la conoscenza angelica, impressa nelle pagine della storia, continua a suscitare fascino e domande sulla natura dell’ignoto e dei regni superiori.
In uno dei suoi “viaggi” avrebbe addirittura incontrato l’Arcangelo Metatron. In che modo?
Utilizzando uno disco di ossidiana nera (oggetto rituale degli antichi sacerdoti aztechi nel Templo Mayor di Tenochtitlan), giunto in Inghilterra dalla Spagna
John Dee e l’invocazione agli spiriti angelici
Intorno al 1583 John Dee si immerse nel mondo del mistero, unendo la sua voce a quella di un essere che superava persino gli arcangeli: Metatron. Questa figura, osannata tra Serafini e Cherubini, trascendeva la sfera celeste, un tempo incarnata come uomo, ma elevata al rango di angelo dal Divino stesso. E non era il solo…
Dee condivideva un desiderio ardente con altri maghi rinascimentali come Agrippa, Ficino e Pico della Mirandola: il tentativo di superare i limiti dell’umano per accedere agli alti regni celesti. Per tali motivi, nelle sue invocazioni enochiane, Dee sussurrava fervide preghiere al fine di richiamare “tutti i tuoi spiriti angelici… da ogni parte dell’universo”, brandendo il potere dei sacri nomi”.
Ma chi era Dee?
Conosciamo l’enigmatico personaggio
Il ritratto ufficiale di Dee, custodito nell’Ashmolean Museum di Oxford, cattura in pieno l’essenza di quest’uomo immerso nella magia. Un anziano figura in un mantello nero, il volto avvizzito eppure dotato di un’aura misteriosa, Dee era amante dell’occulto, dell’astronomia e della ricerca filosofica.
Frances Yates, autrice de La Filosofia Occulta nell’Epoca Elisabettiana, lo dipinge come un uomo immerso nello studio della filosofia rinascimentale. Un individuo che ha dato forma e sostanza alla filosofia occulta, che si è tuffato nel mondo della scienza, abbracciando il lato religioso e riformatore di un movimento che sfidava i confini dell’umano.
L’etichetta di “esoterico” tuttavia non deve offuscare il cosmopolitismo di Dee. Era un uomo dal pensiero cosmico, un intellettuale dotato, custode della più grande biblioteca di opere antiche in tutta l’Inghilterra. La sua dimora a Mortlake, a Richmond-upon-Thames, era un santuario del sapere, dove studiava le ultime opere umanistiche insieme al Corpus Ermetico, per scavare nei segreti del mondo e oltre.
La sua formazione nelle illustri scuole di Lovanio e Bruxelles, lo ha elevato agli occhi dei circoli europei. Era il compagno di menti brillanti come Abraham Ortelius e Gerardus Mercator, ma anche dei luminari dell’astronomia come Keplero e Tycho Brahe. Dee, inoltre, intrecciava rapporti con figure disparate come l’esploratore Humphrey Gilbert e il poeta Philip Sidney, stringendo amicizia persino con l’audace eretico Giordano Bruno.
Ma l’eccezionalità di Dee non si fermava qui.
Fu ospite d’onore nella corte eccentrica di Rodolfo II, l’imperatore del Sacro Romano Impero, che regnava a Praga, una città che, la cui stessa architettura sembrava tessere la trama di incantesimi antichi.
John Dee: un iniziato alla magia e ai misteri
Sebbene nell’Europa rinascimentale, John Dee fosse considerato come uno dei più significativi iniziati nell’arte della magia, nel suo diario lamentava il disprezzo della gente comune, che lo dipingeva come “compagno di segugi infernali, evocatore di esseri dannati e spiriti malvagi“.
Ma la verità è più sfumata, più intrigante.
Dee fu uno dei grandi maestri nell’esplicare i misteri nascosti della creazione. Nei suoi scritti come il “Monas Hieroglyphica e le speculazioni sulle dimensioni soprannaturali della geometria di Euclide“, si scorgevano opere zampillanti di glifi e diagrammi, alfabeti alieni e cerchi incantati, ricchi di simboli e cifre.
Ritornato in patria, la nebbiosa Inghilterra, nel 1558, Dee diventò il capo astrologo di Elisabetta I, consigliandola su politiche occulte e formulando oroscopi. La sua influenza si estendeva tuttavia anche oltre i confini nazionali, fino al Nuovo Mondo.
Dee sosteneva, in accordo con antiche leggende, i diritti dell’Inghilterra sulle terre americane attraverso il presunto re celtico Madoc, figura che, secondo le cronache, aveva navigato e colonizzato l’emisfero occidentale secoli prima.
Fu proprio Dee a coniare l’espressione “Impero britannico“, utilizzando la sua conoscenza magica per plasmare la storia.
Lo specchio di ossidiana
L’America, palcoscenico di epiche scoperte e misteri sconosciuti, divenne anche la terra di uno dei suoi tesori più sacri: lo specchio di ossidiana azteco, che giunse nelle sue mani intorno al 1580. Questo strumento divinatorio si univa ad altri oggetti dal potere enigmatico: specchi profetici, sigilli di cera incisi con simboli occulti, amuleti e sfere di cristallo. Nonostante l’assenza di prove dirette del possesso di Dee, si tramanda che questa pietra fu portata in Spagna dal Messico, dopo l’assedio di Tenochtitlan e poi giunse in Inghilterra.
Tuttavia, mentre le sue ambizioni politiche iniziavano a vacillare, Dee si immerse sempre più nelle arti magiche, facendo largo uso di questi strumenti enigmatici. Come spiega lo storico Nicholas Clulee, la sua ricerca di conoscenza si fece più religiosa, abbandonando la semplice filosofia naturale per un tipo di magia religiosa volta a stabilire contatti diretti con gli angeli di Dio.
Alla scoperta del linguaggio perduto: la via verso il Divino
Il 1582 segnò un punto assai importante nella vita di John Dee: l’inizio di un viaggio nell’occulto.
Si immerse nei misteri delle arti magiche, utilizzando strumenti come lo specchio profetico per evocare, comunicare e addirittura controllare gli spiriti angelici. Fu durante queste evocazioni che Dee entrò in contatto con un linguaggio primordiale, un idioma conosciuto come “Enochiano“.
Gli studiosi del Rinascimento erano affascinati dall’idea di una lingua che riflettesse la stessa realtà, una lingua in cui ogni parola fosse un riverbero del divino. Si presumeva che questa lingua fosse quella parlata nell’Eden, prima del mitico Diluvio Universale, un idioma perfetto e incorrotto che avrebbe perso la sua purezza nel post-Babele. Le parole enochiane risuonavano dunque con una potenza evocativa, come testimoniano i frammenti registrati da Dee nel suo diario e pubblicati successivamente nel resoconto dello studioso franco-inglese Meric Casaubon.
“Io regno su di te, dice il Dio della giustizia, in potenza esaltato al di sopra dei firmamenti dell’ira”, recita una delle invocazioni enochiane, una frase che pare trasportare il peso del divino nell’espressione di Dee.
Eppure, l’interesse per una lingua primordiale non era nuovo. Nell’antichità e nel Medioevo, strani esperimenti furono tentati per ricreare la lingua dell’Eden. Si pensava che bambini cresciuti in isolamento avrebbero potuto manifestare la forma più pura del linguaggio umano, un tentativo quasi disperato di recuperare il divino perduto.
L’imperatore Federico II del Sacro Romano Impero ordinò ad esempio un esperimento simile nel XIII secolo, crescendo bambini senza alcun contatto linguistico per vedere se fossero riusciti a parlare come Adamo ed Eva nell’Eden.
Pure Umberto Eco, in Serendipities: Language and Lunacy, scrive della “lingua perduta di Adamo”, descrivendo questa ricerca come un tentativo di recuperare l’abilità cabalistica di produrre il discorso perfetto, la “Eterna Torah”. Si pensava che il recupero di questo linguaggio potesse infatti condurre all’ascesa verso il divino, a una comprensione più profonda dell’universo stesso.
Scopo del “viaggio”
Il viaggio di Dee insomma, non era solo un tentativo di conciliare cattolicesimo e protestantesimo, ma anche di connettersi con gli angeli, un’impresa intrapresa non come un esperimento isolato, ma come un percorso sfumato nell’occulto. L’occultista non cercava di creare angeli da solitudine, ma di intraprendere un cammino tortuoso verso la comprensione e l’unità spirituale.
Solo dopo una lunga ricerca, Dee riuscì finalmente a stabilire contatti con il regno celeste, grazie all’aiuto dell’alchimista Edward Kelley, una figura enigmatica che agiva da tramite tra Dee e il coro angelico. Attraverso Kelley, Dee riuscì pertanto a decifrare l’alfabeto enochiano e a plasmare la grammatica e la sintassi di una lingua astrale, un linguaggio universale che potesse fare parlare gli eletti come angeli.
La loro coppia, nonostante varie tensioni, vagò per l’Europa.
Durante le loro sedute spiritiche, Kelley sembrava immergersi in uno specchio profetico, entrando in un livello dove il linguaggio non solo rifletteva l’esistenza, ma ne diventava l’essenza stessa.
Dee, maestro dello specchio azteco, evocava invece gli angeli con destrezza. Il riflesso di quel disco nero divenne la porta attraverso la quale chiamare esseri come Aaoxaif, Barnabas, Edlprnaa, Galgalliel, Htmorda, Obgota Aabco, Raagiosl e persino Metatron, il cui dominio, se non esplicitamente menzionato nelle carte enochiane, sembrava riverberare in quel misterioso specchio azteco.
I rituali di Dee erano solo incantesimi?
La risposta è no. Essi rappresentavano un viaggio spirituale, un’ascesa verso l’alto, un’espansione dell’anima alla ricerca della conoscenza divina.
Nel cuore di quelle evocazioni, nelle trame intricate della sua ricerca, Dee bramava l’illuminazione. Un viaggio che superava i confini del tempo e dello spazio, unendo l’umanità al divino, scrutando nell’abisso per comprendere ciò che si cela al di là delle stelle.
L’enigma di Enoch e l’incontro con Metatron
Ma torniamo all’arcangelo Metatron. Dee, nel suo almanacco, richiama la figura enigmatica di Enoch, descritto come un individuo privilegiato per il favore divino. Nei suoi libri e archivi, rintraccia il legame di Enoch con gli angeli, inviati da Dio per istruirlo, consigliarlo e soddisfare i suoi desideri e le sue curiosità sugli arcani divini.
Enoch, una figura biblica oscura e misteriosa, compare solo brevemente nelle Scritture, descritto come colui che “camminò con Dio: e lui non era; perché Dio lo prese” (Genesi 5:24). Questo profeta, elevato al cielo senza conoscere la morte, è tuttora avvolto da un alone di mistero e cripticità. La sua ascesa fisica rappresenta un evento unico nel panorama biblico, unendolo a una ristretta confraternita che include anche la Vergine Maria e Maometto, figure il cui destino finale è altrettanto nebuloso e poco descritto.
Il Terzo Libro di Enoch, un testo apocrifo del terzo secolo attribuito a “Rabbi Ishmael”, offre una visione dettagliata di questo Enoch umano che, dopo essere stato preso da Dio, fu trasformato in un angelo glorioso. La metamorfosi non solo rappresenta una fuga dalla morte terrena, ma l’ascesa a uno stato divino. È qui che compare il nome di Metatron, attribuito a Enoch dopo la sua trasfigurazione, quando la sua carne fu mutata in fiamma e le sue caratteristiche umane furono trascese da una gloria angelica.
Questo misterioso racconto solleva più domande che risposte. La figura di Enoch, trasformata in Metatron, diventa il punto focale di antiche leggende e speculazioni teologiche, che fondono l’umano e il divino in un unico essere. Ma chi era Metatron?
Metatron: era il Re del cielo?
L’origine del nome “Metatron” rimane avvolta nell’ambiguità e alimenta ancora oggi teorie etimologiche che spaziano dall’origine persiana alla possibile derivazione greca o ebraica. Lo stesso nome non compare se non in tre brevi riferimenti nel Talmud, mentre alcune tracce di questa figura potrebbero essere andate perdute nel corso dei secoli. Tuttavia, è il ruolo attribuito a Metatron a destare perplessità e discussione. L’ascesa di Enoch, un uomo giusto trasformato in un’entità angelica, non è solo una metamorfosi, ma un’enigmatica elevazione a un ruolo di particolare rilievo, un essere seduto accanto a Dio, addirittura portavoce del Signore stesso. Tale elevazione a un ruolo così predominante è un enigma teologico che suscita reazioni contrastanti.
Metatron, non semplicemente un abitante del Paradiso, ma il re del cielo stesso, secondo gli apocrifi cabalistici, adempie ai doveri divini escluso il sabato, come se preservasse l’inviolabile separazione tra il divino e il mondo terreno. Questa dualità profonda, al cuore dell’esoterismo giudaico, sottolinea una divisione interna nell’essenza divina stessa.
Il testo apocrifo 3 Enoch va oltre, definendo Metatron come il “Yahweh minore“, un essere elevato persino oltre arcangeli come Michele, Gabriele, Uriel e Raffaele, posizionato accanto a Dio nell’eternità.
Cosa significa? L’ ascensione di Enoch/Metatron, mettendo in discussione il concetto tradizionale di superiorità angelica sull’umanità, sottolinea l’idea che, almeno in certi aspetti, l’uomo possa superare gli stessi angeli.
Tuttavia, questa retorica che associa Enoch a Yahweh, pur in una posizione di sottomissione, solleva perplessità e dissenso tra gli ortodossi ebrei, avvicinandosi per alcuni alla blasfemia. Il filosofo e teologo Gershom Scholem, nel suo trattato su Major Trends in Jewish Mysticism, evidenzia il disagio degli ebrei ortodossi di fronte al “nome esaltato di Metatron“, che per molti sfiora il confine dell’eresia.
L’episodio di Elisha ben Abuyah in Hagigah 15a, ad esamepio, raffigura sì Metatron come una presenza divina accanto al Signore, l’immagine suscita tuttavia perplessità e lo porta ad essere maledetto con raggi di fuoco. Nei testi, come nel Sanhedrin 38b, il dibattito sulla devozione a Metatron emerge, delineando chiaramente la sua posizione come un essere minore rispetto al Signore.
Sebbene Metatron non sia esplicitamente identificato come Enoch nei testi apocrifi come 1Enoch e 2Enoch, questi testi offrono visioni della creazione e dell’apocalisse attraverso gli occhi di Enoch, gettando ulteriore incertezza sulla relazione tra i due personaggi.
Metatron era un’entità divina?
In realtà, Metatron, sebbene impressionante e potente, non è un’entità divina. Nonostante le teorie e le leggende su possibili celebrazioni di Metatron nel nuovo anno ebraico (noto come Rosh Hashanah), da parte di alcune fazioni ebraiche o presunti riferimenti al suo potere divino, i testi canonici non lo elevano a status divino.
Le varie interpretazioni su Metatron, come sottolinea lo studioso Gershom Scholem, svelano un’interessante dicotomia tra l’ebraismo ortodosso e le sue tendenze esoteriche. La figura di Metatron, in alcuni testi come lo Zohar, emerge come il re degli angeli, ma sempre come una creatura, non come un essere divino. Questo lascia uno spazio d’ombra, un abisso tra il divino e l’essere più alto tra gli angeli, senza alcun tentativo di colmarlo.
Come afferma Scholem, “ogni mistico deve subire questa trasformazione, ma con la differenza che, essendo meno degno di Enoch, corre il pericolo di essere divorato dalle ‘torce ardenti’”. Ma torniamo a Dee.
John Dee era un ciarlatano?
John Dee, brillante uomo del Rinascimento spesso interpretato come un proto-scienziato, era giustamente celebrato nel suo tempo. Tuttavia, la sua collaborazione con Edward Kelley, un personaggio controverso e spesso considerato un ciarlatano o uno psicotico, ha incrinato la sua reputazione nel corso dei secoli. Nonostante le incertezze sulla credibilità di Kelley, la loro corrispondenza con il regno angelico è un monumentale risultato, una sorta di poesia automatica che si intreccia con calcoli, grafici e dialoghi strani, eterei, e incandescenti con decine di esseri che sembrano quasi alieni.
Queste “conversazioni angeliche” spaziano dall’enumerazione dei paesi con i loro angeli presiedenti fino alla profezia e alle trascrizioni in lingua enochiana, come evidenziato da Donald C. Laycock nella prefazione al Complete Enochian Dictionary.
Sebbene non si possa affermare con certezza che Dee e Kelley abbiano veramente comunicato con una coscienza trascendente, i resoconti delle loro sedute esprimono una convinzione profonda nella loro esperienza. Dee, in particolare, descrive incontri angelici con dettagli vividi, come un angelo vestito di viola e coronato, oppure un altro avvolto in fiamme gassose in una visione che nessun occhio mortale potrebbe sopportare.
Ovviamente, misurare queste esperienze secondo i nostri standard odierni sarebbe ingiusto. Come osserva la storica Deborah Harkness, Dee emerge come una figura transitoria tra epoche e culture, oscillante tra il magico e il scientifico, il medievale e il moderno, il protestantesimo e il cattolicesimo.
In definitiva, la storia di Dee e Kelley è intrisa di ambiguità, incanto e incertezza.
E l’Enochiano?
Quanto all’Enochiano, la lingua stessa trasporta il peso di un’inquietante verità. La sua prosodia e i suoi ritmi singolari incanalano una sorta di verità elementare, come se provenissero da un Eden oltre il velo della realtà. La Seconda Chiave Enochiana, una delle diciannove preghiere angeliche registrate da Dee e Kelley, scivola tra le labbra come un miele antico, trasportando un significato che trapassa le barriere del linguaggio.
Leggere ad alta voce l’Enochiano è un’esperienza affascinante e misteriosa. Nonostante la lingua stessa abbia suggerito somiglianze semantiche con l’inglese, l’aspetto misterioso e alieno delle parole suggerisce un’origine divina o paradisiaca, distante da questo mondo. Eppure, la traduzione dell’invocazione è un dipinto ricco di simbolismo, un’espressione di potere e meraviglia rivolta a una divinità immaginata.
Ma il ricercare l’immortalità attraverso queste invocazioni non avrebbe garantito a Dee e Kelley un destino da divinità.
Un triste destino
Che fine hanno fatto i nostri “eroi”? Kelley rimase in Boemia mentre Dee, tormentato da crescenti difficoltà finanziarie e isolamento, tornò in Inghilterra, in un Paese dove la caccia alle streghe era diventata un passatempo regale.
Quando Dee morì nel 1609, in povertà, svendendo persino la sua preziosa biblioteca, il suo luogo di sepoltura rimase ignoto.
La storia di Dee e Kelley insomma echeggia la parabola ebraica dei quattro saggi che tentano di contemplare Dio nel Pardes, il “giardino” o “paradiso“. Solo uno, il rabbino Rabbi Akiva, esce indenne da questa esperienza trascendentale. Gli altri, colti da morte, follia o apostasia, illustrano il pericolo dell’intensa vicinanza al sacro.
Conclusioni
La narrazione trasmette un messaggio chiaro: persino i più illuminati e devoti possono essere travolti dall’intensità del divino. Eppure, in mezzo a questa turbolenza mistica, emerge una bella lezione : “se dovessi imitare uno dei saggi, che sia Akiva“.
Questa storia antica continua a rimanere un richiamo alla delicatezza dell’anima umana di fronte all’infinito, un racconto di devozione e pericolo, di misticismo e tragedia. Dee e Kelley, come i saggi nel Pardes, si sono avventurati nell’abisso della conoscenza divina, ma la loro esperienza, pur incerta e talvolta oscura, resta un monito universale sulla fragilità umana di fronte al sacro.
Nel labirinto della Kabbalah, tra segreti enigmatici e misticismo complesso, emergono le storie dei quattro rabbini del Pardes. Ciascuno di loro ha affrontato l’ineffabile: la morte, la follia, la blasfemia, la verità. Le lettere e i nomi, i diagrammi e gli incantesimi, in fondo, potrebbero essere più lirici che scientifici. Sono indicazioni di un giardino proibito, terre inaccessibili a piedi umani.
Vivere una vita prosaica, centrata sul lavoro, la famiglia e il pragmatismo, potrebbe essere meno pericoloso rispetto alla ricerca delle profondità divine. Eppure, figure come Dee, Kelley e Enoch hanno abbracciato la magia e il desiderio di Dio, un sentiero pericoloso e affascinante.
Il Rinascimento, con il suo fervore esoterico, ha incarnato questa ricerca di ascensione angelica, il desiderio non solo di comprendere il divino ma di divenirlo. Tuttavia, la storia di questi uomini è una di aspirazioni infrante e l’angelo, come ci ricorda Albrecht Dürer, nella sua opera Melancolia, simbolo di malinconia e fallimento, si allontana dal cielo, ricordandoci la caduta di Enoch e la natura umana caduta.
Fonte: The age of Enoch and Metatron-Ed Simon
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