I Rohingya, tra monsoni e persecuzioni

Rohingya

“Mi chiamo Imran, sono un rifugiato da tutta la vita; sono venuto al mondo in un campo profughi del Bangladesh e da due anni vivo in Malaysia. Non ho potuto scegliere dove nascere né come crescere, ho scelto però di diventare un combattente e lottare per i diritti umani”.

La rete permette di raggiungere anche i posti più remoti. Imran appartiene al gruppo etnico dei Rohingya e ci scrive da una piccola lingua di terra malese, dallo stato del Penang.

“Gente di barca”, chi sono i Rohingya?

Definito come il popolo più perseguitato al mondo, i Rohingya sono una minoranza musulmana residente prevalentemente in Myanmar (ex-Birmania), nello stato del Rakhine (precedentemente Arakan, di qui il termine arakanesi per i suoi abitanti), al confine con il Bangladesh. Secondo la teoria più accreditata, i Rohingya discendono da un gruppo di mercanti musulmani originari del Bengala, emigrati durante il periodo coloniale nell’allora Birmania. Costretti a vivere in condizioni simili all’apartheid, i Rohingya della Birmania rappresentavano il 7% dell’intera popolazione fino al 1982, anno in cui il passaggio ad una nuova legge li rese apolidi. Nel 1982 infatti il governo birmano rifiutò di riconoscerli come gruppo etnico, insistendo sul loro status di migranti economici, clandestini, bengalesi. Ai Rohingya è stato negato il diritto di essere dei cittadini, con esso un accesso alle cure sanitarie di base e all’istruzione, è stata negata loro la possibilità di muoversi liberamente sul territorio nazionale e quella di unirsi in matrimonio, se non previo permesso del governo.

“Sono in molti ancora a non sapere della persecuzione in atto, me ne sorprendo ogniqualvolta nuovi amici di Facebook, provenienti da varie parti del mondo, non sanno neppure chi sia un Rohingya. Siamo il popolo meno voluto sulla faccia della terra, vittime di un genocidio che non vuole essere riconosciuto e che si protrae da decine di anni. Eppure i media hanno iniziato a parlare di noi solo di recente”, spiega amaramente Imran.

Perché fuggire?

In uno stato prevalentemente buddhista, i musulmani Rohingya hanno da sempre occupato il livello più basso della piramide sociale; il loro inserimento nel tessuto dello stato del Rakhine e tra i buddhisti arakanesi è pertanto causa e conseguenza di una forzata convivenza.

Non può essere ignorato tuttavia lo zampino occidentale, in particolare inglese, in merito ai conflitti interni esistenti tra le due fazioni. Due furono forse gli errori più grandi e rilevanti di cui la potenza inglese si macchiò in terra birmana. Durante la 2° Guerra Mondiale, il Rakhine era terra contesa tra Giappone ed Inghilterra; temendo un’invasione da parte del nemico, gli inglesi armarono e crearono gruppi paramilitari nell’Arakan settentrionale, quasi esclusivamente abitato da soli Rohingya (prima calunnia). Il secondo inganno è nell’impegno, mai mantenuto, che gli inglesi presero con i Rohingya, promettendo loro uno stato islamico indipendente nel nord del Rakhine una volta riconquistata la Birmania.

In seguito alla proclamazione d’indipendenza della Birmania nel 1948, il crescendo di tensioni tra musulmani e buddhisti sfociò più volte in spaventosi atti di violenza e cruda repressione da parte dell’esercito birmano. Nel 1978 un vero e proprio tentativo di pulizia etnica causò l’esodo di 200.000 Rohingya verso il vicino Bangladesh; una seconda crisi si registrò tra il 1991 e il 1992, con la conseguente fuga di circa 250 mila musulmani. Una terza drammatica fase emergenziale scoppiò nel 2012. Contrasti e ondate di violenza provocarono la morte di decine di migliaia di Rohingya e migliaia di sfollati, perlopiù donne e bambini; 138.000 rifugiati furono “temporaneamente” trasferiti nei campi profughi interni allo Stato, 150.000 riuscirono invece a trovare riparo in Bangladesh.

Un Nobel per la Pace, omertoso e macchiato

Durante le repressioni, i rifugiati hanno spesso riferito di stupri, torture, incendi dolosi e omicidi da parte dell’esercito birmano; i Rohingya sono stati letteralmente sfrattati dalle loro abitazioni e le loro terre confiscate, diventando, di fatto, “gente senza terra”.

Nonostante soprusi ormai riconosciuti e campagne mediatiche attivate da vari enti internazionali quali Amnesty International, Medici Senza Frontiere, Save the Children, il tamponamento della crisi umanitaria – piuttosto che un tentativo di risoluzione alle sue radici – continua ad essere l’azione più gettonata e seguita dalla comunità internazionale. Sulla scia di una posizione attendista, dunque, sono sorti ed espansi i campi profughi allestiti con il supporto dell’UNHCR lungo il confine tra Bangladesh e Myanmar.

L’elezione a Consigliere di Stato del premio Nobel per la pace (1991) Aung San Suu Kyi nel 2015 aveva lasciato ben sperare in una rottura con il passato e in un futuro più giusto e roseo per i Rohingya. Eppure nulla è stato fatto di concreto a distanza di cinque anni; il silenzio assordante del governo birmano continua a mietere vittime tra i Rohingya.

I ricercatori di Human Rights Watch riferiscono che dalla fine di agosto 2017 oltre 670.000 musulmani Rohingya hanno lasciato il Rakhine per sfuggire alla campagna militare genocida. Rimangono ancora centinaia di migliaia invece gli sfollati interni, costretti in condizioni umanitarie disastrose.

Un’isola paradiso per i Rohinghya?

Secondo l’UNHCR, sono più di un milione i  rifugiati Rohingya che hanno trovato riparo nei campi tentacolari del Bangladesh, della Thailandia, della Malesia e dell’India, dal 1978 ad oggi. Ad oggi, il Bangladesh continua ad ospitare il maggior numero di rifugiati Rohingya. Quello di Cox’s Bazar è il campo profughi più grande del mondo ma solo uno delle tante terre sovraffollate, duramente colpite dalle piogge monsoniche, dove inondazioni e frane uccidono persone e spazzano via intere baraccopoli.

La soluzione alla cronica emergenza umanitiaria dei Rohingya secondo il governo bengalese si chiama Bhasan Char. Bhasan Char è un’isola sita circa 30 km al largo della costa del Bangladesh; qui è stata costruita ex-novo la città che dovrebbe ospitare circa 100.000 rifugiati che attualmente vivono sulla terraferma. Bhasan Char è tuttavia l’alternativa che fa paura ai più.

Stando al parere di esperti locali, climatologi e geologi, l’isola sarebbe infatti particolarmente soggetta a inondazioni, erosioni del terreno a causa del substrato sabbioso, e cicloni monsonici, rischiando addirittura di “essere spazzata via”. Nonostante la costruzione di difese contro le inondazioni, rifugi e ospedali funzionanti, disponibilità di scuole e centri comunitari, si tratterebbe di una regione non ancora pronta ad essere abitata, che necessiterebbe di almeno due o tre decenni di piani di assesto idro-geologico per essere messa in sicurezza.

L’emittente tedesca Deutsche Welle (DW News) riporta il terrore che i Rohingya vivono al solo pensiero di dover essere spediti sull’isola. “Non vogliamo andare a Bhasan Char, l’isola rischia continui allagamenti ed inondazioni, i nostri figli rischieranno così di morire. Quell’isola rappresenta una trappola per la vita. Se andiamo lì, moriremo. Aiutateci a rimanere qui” (intervista ad una donna Rohingya, DW news).

La comunità internazionale?

Un inaspettato atto di solidarietà e concreto appello all’azione arriva da un piccolo stato dell’Africa occidentale: il 10 novembre 2019 il Gambia si appella alla Corte internazionale di giustizia accusando l’esercito birmano e quindi il Myanmar di atti di genocidio e pulizia etnica contro la sua minoranza Rohingya. La leader Aung An Suu Kyi, chiamata a comparire dinanzi ai giudici dell’Aia, respinge ogni capo di accusa, ma la corte si esprime all’unanimità contro i reati commessi, ordinando al Myanmar di adottare misure di emergenza per fermare il genocidio. Seppur non vincolante, la decisione della corte offrirebbe una giustificazione giuridica nel caso di sanzioni nei confronti del governo birmano, oltre a creare chiaramente un precedente importante. Spetta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ora vagliare la sentenza e decidere in merito alle possibili conseguenze.

Nel frattempo continuano indisturbate, ma ben documentate, le angherie contro i musulmani Rohingya.

“Sperimento odio, discriminazione, ingiustizia e cattiveria sin da quando sono nato. Parlare dei Rohingya non aiuta a porre fine alle persecuzioni ma è importante che questa tragedia non resti relegata in un angolo di mondo, segreta ai più. Solo così possiamo sperare di alimentare la flebile fiamma della solidarietà e della pressione comunitaria” (Imran).

Foto di Rohingya Flag da Pixabay

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