I bambini e la violenza

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La notizia 

È recente la notizia di uno scolaro appena seienne che in una scuola elementare della Virginia ha esploso un colpo d’arma da fuoco contro la propria maestra ferendola gravemente.

Leggo, spulciando fra le cronache del genere che nel 2000, in una scuola elementare di New York, un bambino di sette anni ha ucciso sparandole, una compagnetta.

Non apro un discorso scontato sulla folle facilità con cui negli Stati Uniti chiunque può procurarsi un’arma e di come in famiglia siano custodite con leggerezza le armi da fuoco. Penso a come sia da considerare questi eventi e di quali responsabilità familiari e sociali siano a monte del fenomeno.

E’ follia?

Dico subito che non siamo di fronte ad eventi marginali, a situazioni estreme, a casi assurdi fuori da ogni prevedibilità. Senza la disponibilità dell’arma tutto si sarebbe esaurito in una scenetta imbarazzante.

I due bambini non sono dei folli.

Non sono dei criminali congeniti.

Sono dei bambini come gli altri come gli altri non hanno alcuna idea della morte.

Ne parlano, la minacciano, la inseriscono nei loro giochi.

Ricordo che mia figlia treenne, mentre giocava a palla con me, disturbata dal tentativo di inserirsi nel gioco da parte di un piccolo e solitario bimbetto insorse indispettita e mi disse che l‘infiltrato “doveva assolutamente morire “(parole testuali).

Mia figlia è poi diventata donna di straordinario equilibrio e di grande tolleranza.

Anche Pirandello

Proprio questo ricordo mi riporta alla mente la novella di Pirandello “Nenè e Ninì”: Nenè (tre anni) di fronte alle minacce immaginarie di soprusi da parte della matrigna,” mostrando il pugno chiuso diceva – e io l’ammazzo – e Ninì, con voce grave e pacata domandava – l’ammazzi davvero? “

Ma, a chiarire che quelle minacce non erano il frutto d’una reazione elaborata alle insinuazioni delle pettegole di casa Donzello ma qualcosa di insito nell’immaginario dei due bimbi, il narratore così conclude la storia: -Nenè e Ninì giocavano ignari e felici con un pappagalletto imbalsamato.” Mao ti strozzo “diceva Nenè e Ninì con la lingua imbrogliata: lo strozzi davvero?”

La morte immaginata

Uccidere o far morire è per il bambino un modo di eliminare dalla scena (non dalla vita o dal mondo). Il bambino che non sopporta più il compagno di giochi usa i termini “muori, sparisci, va via, non ti voglio più vedere “come se fossero equivalenti. E i gesti che accompagnano queste parole sono i più diversi: un braccio teso, coprirsi gli occhi, brandire un’arma immaginaria e fare pum.

La morte reale non è nella coscienza del bambino; è un simbolo, una cancellazione mentale.

Il morto, o meglio l’ucciso, tornerà domani, si presenterà in altri momenti ed occasioni, si comporterà diversamene o ugualmente, ma l’insieme delle vicende andrà avanti come se l’uccisine di quel giorno o di quell’ora non si fosse mai verificata.

È così nelle favole ma è così soprattutto, ai nostri disavveduti giorni, con i cartoons e coi video giochi.

Per non dire degli spettacoli televisivi cui i bimbi accedono in barba a qualsiasi family control.

Tutte le forme di spettacolarità o narrativa disponibili sono impregnate di violenza oltre ogni limite, oltre ogni esigenza informativa, oltre la varietà delle documentazioni o delle invenzioni.

Da questa alluvione di rappresentazioni violente l’infanzia non viene difesa.

La tesi della compensazione

Ho fatto parte a suo tempo, in qualità di magistrato consulente, delle commissioni di censura cinematografica che si occupavano non già di limitare la libertà di espressione ma solo di ammettere o meno alla riproduzione televisiva certi film già vietati ai minori. Non discuto della validità di quelle commissioni; acqua passata. Ma nel valutare se negare o meno il visto a produzioni di estrema violenza ho sentito le obiezioni, non tanto dei produttori che portavano l’acqua al mulino degli interessi di cassa, quanto degli psicologi di cui i produttori richiamavano il parere.

A distanza di lustri quella stessa tesi sento sbandierare dallo psicologo di turno nei Talk show televisivi. —Il parere è sempre lo stesso: l’esibizione puramente immaginaria di scene di violenza opera come un vaccino contro gli istinti aggressivi, ne realizza una sorta di soddisfazione virtuale e quindi lungi dal generare violenza reale da quella difende e dissuade.

Una tesi che riferita agli adolescenti è inaccettabile.

La prevenzione è nell’educazione 

Nella psiche adolescenziale l’immaginario è più forte del reale, si confonde col reale.

Tutto il problema dell’educazione infantile è quello di preparare i piccoli alla realtà senza distruggerne la fantasia e l’istinto del gioco e introdurre nei loro sogni le regole della vita reale, coniugare sogno e verità.

Non è facile dovendo combattere contro il cinismo dei fabbricanti di illusioni e imporre limiti allo sterminato e incontrollabile mondo dello spettacolo e soprattutto del Web.

È il compito difficile della scuola e della famiglia, compito cui entrambe sono impreparate.

Ma è l’unica strada percorribile, non solo per scongiurare i casi estremi come quelli da cui sono partito (peraltro targati USA) ma per prevenire tutte le svariate forme di degenerazione dell’aggressività istintiva come il bullismo.

E comunque, genitori, se il vostro figlioletto si distacca dal videogioco, ilare e soddisfatto, dopo aver traghettato la sua banda di pupazzetti oltre l’ostacolo sterminando tutti i pupazzetti nemici, tenete la vostra pistola, pur legittimamente denunziata, ben chiusa in cassaforte.

Foto di Steven Weirather da Pixabay

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