“Guardate Sanremo, vi stupiremo”

L’Ariston è stato teatro di parole che non hanno fucili, di carezze che graffiano e leniscono, di strass che scuotono e rimbalzano negli occhi degli spettatori.

Senza pelle, ma con le palle

Lei, giornalista italo-palestinese, mezza vita in un orfanotrofio; lui, rapper e cantante italiano, cresciuto con la passione per la musica frequentando i quartieri di Roma. Entrambi in qualche modo “svestiti”, consapevoli, tuttavia noncuranti, dei giudizi che potrebbero tuonare l’indomani.

“Stretto” ma a proprio agio, Achille Lauro canta in un aderente costume dorato, dopo aver lasciato cadere la tunica damascata con cui era salito sul palco. Una scelta stilistica che avrà senza dubbio trovato la legittimazione della direzione artistica. In molti vi hanno ritrovato il look di un giovane Renato Zero, ruggente in quei succinti e variopinti costumi di scena. “Un omaggio a Giotto e San Francesco”, spiega invece l’artista. Ancor prima di Zero e Lauro, difatti, fu il frate buono che parlava agli animali ad azzardare, scandalizzare e scuotere le sue “autorità”, spogliandosi dei propri abiti, durante quello che viene ricordato come il momento più rivoluzionario della sua storia.

Se è vero che vi sono modi e modi di fare le cose, di certo Achille Lauro non ha scelto la via più sobria per cantare in diretta nazionale su RaiUno. Possiamo pertanto discutere di consumatori (non) tutelati, di bambini confusi, di telespettatori sdegnati. Se c’è una reazione che Achille Lauro voleva suscitare, l’ha destata. Se per “indegno” si vuol intendere ciò che è immeritevole e/o ingiustificabile, allora “provocatorio ed imprevedibile” sono probabilmente i termini più consoni che dovremmo utilizzare in merito alla sua tutt’altro che discreta performance.

“Sono stata chiamata per celebrare la musica”

Rula Jebreal (foto), aveva 5 anni quando sua mamma, stuprata e vittima di violenza sistemica, si tolse la vita dandosi fuoco. “Il suo corpo era la tortura di cui voleva liberarsi”, in un’immagine Rula riesce a trasmettere cosa significhi subire una violenza.

Linee semplici ed eleganti, avvolta in un abito rosa antico, alla sua sinistra un libro bianco, uno nero alla sua destra. La disinvoltura con cui Rula Jebreal scende la scalinata dell’Ariston è degna della sua tanto contestata partecipazione a Sanremo. Presenza, la sua, che prevede un compenso di circa 20 – 25 mila euro; metà della cifra sarà devoluta a Nadia Murad, l’attivista irachena yazida, rapita e stuprata dall’Isis, che denuncia e divulga i segni lasciati dal regime terrorista.

Nettamente pro-palestinese, la sua presenza a Sanremo è stata oggetto di dibattiti e polemiche. Ma lei c’è, arriva, come un pugno nello stomaco. “Aveva la biancheria intima quella sera?”, inizia riportando alcune delle più frequenti domande solitamente rivolte alle donne vittime di violenza al momento della denuncia e nelle aule di tribunale. Termina con un invito alle donne e agli uomini: alle prime chiede di parlare, ai secondi chiede di lasciare che le donne possano essere quello che sono e che vogliono essere, “siate nostri complici, nostri compagni, indignatevi con noi”.

Da far girare la testa

Ci auguriamo che il timore che a Sanremo si potesse parlare di attualità e politica più che di canzoni sia stato fugato dal coraggio di indossare ciò che più “si voglia e che più piaccia” agli artisti. E ci auguriamo inoltre che l’iniziale decisione di bocciare la presenza di una giornalista nettamente pro-palestinese allo scopo di “non turbare la sensibilità di nessuno” sia stata elegantemente dissentita dal coraggio di “dire cose che contano e di cui bisogna parlare”.

A scandalizzare, ancor più degli artisti, dovrebbero essere le cifre da capogiro che la Rai è disposta a sborsare per valorizzare la volta celeste dell’Ariston, forse per questo, più di ogni altro urticante contenuto, può essere immeritevole di avere tanto seguito.

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