Grand Budapest Hotel

grand_budapest_hotelUn giovane scrittore (Jude Law) racconta di come il suo romanzo sia stato ispirato dal racconto di uno dei protagonisti della storia, Zero Moustafa (F. Murray Abraham), il quale comincia il lungo flashback narrante incentrato sul leggendario Grand Budapest Hotel, situato nella immaginaria Repubblica di Zubrowka, in Europa Centrale.

Agli inizi del ‘900, Gustave H (Ralph Fiennes) lavora come concierge in questo raffinatissimo Hotel, ma in pratica ne è il gestore e direttore. Uomo colto, garbato, ironico, eccentrico, pratico, amante del bello e appassionato di anziane signore, intrattiene con una di queste (Tilda Swinton) una relazione particolare, tanto che, alla morte di lei, riceve in eredità un quadro dal valore inestimabile. Il figlio di lei, Dmitri (Adrien Brody), aiutato dal suo scagnozzo-sicario Jopling (Willem Dafoe), cercherà in ogni modo di ostacolarlo, prima accusandolo dell’omicidio di sua madre e poi cercando di ucciderlo per rubargli il quadro. Per Gustave incomincia una serie di peripezie, inseguimenti, catture, evasioni, caccia all’uomo: il lieto fine è assicurato grazie al prezioso aiuto del suo giovane aiutante Zero (l’esordiente Tony Revolori), neoassunto tuttofare immigrato, e della bella pasticcera Agatha (Saoirse Ronan).

Il film di Wes Anderson (Tenenbaum, Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Moonrise Kingdom), premiato a Berlino con l’Orso d’argento, gran premio della giuria, è uno spettacolo per tutti i cinque sensi. Visivamente sontuoso, è cinema allo stato puro: lo stile diventa scrittura e viceversa; la cura per i particolari, i colori pastello, i costumi, le geometrie retrò, le inquadrature originali, la “mise en scène” volutamente eccessiva e teatrale, sono cifre stilistiche che caratterizzano Anderson in tutti i suoi film, così come la narrazione (il piacere di raccontare) è uno dei suoi temi centrali, e l’uso di punti di vista non convenzionali ci permettono di riconoscere immediatamente un suo lavoro.

Dedicato e ispirato alle opere dello scrittore austriaco Stefan Zweig – che negli anni Trenta si vide bruciare le sue opere dai nazisti – è anche un film da ascoltare, non solo per l’efficace colonna sonora operettistica di Alexandre Desplat (The tree of life, Il cuorioso caso di Benjamin Button, Argo, Syriana..), ma soprattutto per i dialoghi acuti ricchi di ironia efficace che lo avvicinano alla commedia sofisticata di Lubitsch, Capra e Wilder con alcuni elementi di comicità slapstick tipica dei Fratelli Marx.

La scenografia è come sempre curatissima: in tutti i film di Anderson c’è quello strano effetto “casa di bambola” che rende gli attori marionette di uno spettacolo teatrale di altri tempi, in cui ogni inquadratura è microcosmo a sé di elementi tridimensionali da voler provare ad afferrare in qualche modo.

È anche un film da gustare come una grande torta ben confezionata e abilmente decorata: una favola per adulti delicata ma con qualche farcitura surreal-pulp (nella scena delle dita mozzate, per esempio) per ricordarci che troppo zucchero fa male, e la realtà – anche quella reinventata dal ricordo fantastico – può essere a volte acida.

Una considerazione finale sul cast è doverosa, in quanto sembra quasi che ci sia stata una gara a voler partecipare a questo film: anche solo per un piccolo cameo troviamo i vecchi amici del regista (Bill Murray, Owen Wilson, Jason Schwarzman); e poi grandi attori famosi come Harvey Keitel, Jeff Goldblum, Tom Wilkinson, Tilda Swinton, Edward Norton, Adrien Brody, Willem Defoe, Jude Law, ognuno inserito perfettamente nella grande scacchiera di Anderson, fino ad arrivare al protagonista mattatore, un Ralph Fiennes sorprendentemente a suo agio in questa brillante commedia avventurosa dal sapore retrò di difficile catalogazione, se non quella di: “un film di Wes Anderson”.

di Fabio Rossi

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