
Cosmogonia e arte. Nell’antichità, l’arte era l’alfabeto dell’anima, un linguaggio che trascendeva il tempo e le parole, racchiudendo in sé l’essenza stessa dell’esistenza umana. La sua natura simbolica, magica e sacrale emerge dalle caverne di Cromagnon fino agli antichi templi dell’India.
Attraverso l’analisi esoterica ed essoterica di illustri pensatori come Evola, Guénon, Coomaraswamy e altri, scopriremo una cosmogonia artistica in cui l’opera non è solo materia, ma un portale verso mondi interiori.
Cosmogonia artistica: Julius Evola
Cosmogonia. Julius Evola, pseudonimo di Giulio Cesare Andrea Evola (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974, sollevò il velo dell’arte antica, rivelando un mondo intriso di significati magici e simbolici.
Secondo il filosofo, pittore e occultista romano, nella sua dimensione ancestrale, l’arte non era solo una rappresentazione estetica, ma un richiamo agli dei, una preghiera intrisa di magia, manifesta attraverso la materia.
Le pitture rupestri, le raffigurazioni di caccia non erano dunque delle semplici decorazioni, ma incantesimi, poteri di richiamo per catturare la selvaggina desiderata.
Ogni pennellata era un atto rituale, un invito alla prosperità e alla sopravvivenza.
Non solo la pittura, ma ogni forma artistica, danzava tra il sacro e il profano. La musica e le danze rituali incantavano gli dei, la scultura custodiva l’anima del mondo, la poesia era un rito di passaggio tra il visibile e l’invisibile, portando con sé l’essenza dell’esoterico, il seme di una realtà al di là di ciò che vediamo.
Evola arrivò persino ad evidenziare la coesistenza di una “scienza sacra” che, in armonia con le arti e le scienze profane, riconosceva la natura come un tutto organico, una gerarchia di realtà oltre i limiti sensoriali.
Ananda K. Coomaraswamy: arte e religione due facce della stessa medaglia
Lo storico d’arte Ananda K. Coomaraswamy (Colombo, 22 agosto 1877 – Needham, 9 settembre 1947) sosteneva che religione e arte sono due facce della stessa medaglia: entrambe un’intuizione della realtà, un’esplorazione dell’identità e della coscienza.
Anche secondo lui, le pitture rupestri, ricche di simboli, erano un ponte tra il mondo umano e il divino, una fusione di identità tra cacciatori e prede, un’affinità che garantiva il successo della caccia. Stesso discorso valeva per le antiche arti teatrali che, nate dalle iniziazioni e dalle celebrazioni cosmiche erano una sorta di richiamo all’identità più profonda dell’uomo.
L’estasi secondo Coomaraswamy
Poi Coomaraswamy ci guida nel cuore dell’estasi creativa, nel concetto fondamentale dell’arte tradizionale induista: il “rasa” o “sapore” dell’arte.
Il rasa, secondo Viśvanātha nel Sāhitya Darpana, è un’esperienza pura e indivisibile, composta da gioia e consapevolezza, libera da ogni contaminazione. Si riferisce a quell’essenza palpabile delle opere d’arte, capaci di scatenare una contemplazione estatica nell’osservatore.
E qui, troviamo una piccola differenza con Evola.
Coomaraswamy ci introduce a una visione elitaria dell’arte, in cui l’osservatore diventa l’attore principale dell’esperienza artistica. È l’osservatore, non l’autore, che detiene il potere di assaporare il rasa, di connettersi con la creazione artistica a livelli più elevati.
Il rasika, colui che gusta del rasa, è colui che penetra nei meandri più profondi dell’opera d’arte, che ne coglie la bellezza intrinseca.
Questo viaggio verso la bellezza, questo incontro con il sacro nell’arte, è tuttavia un’esperienza riservata a coloro che possiedono la visione e l’immaginazione. Per coloro privi di questa sensibilità, l’opera rimane inerte, come oggetti di legno o pietra, muti e insignificanti. L’elaborazione tecnica, il realismo e persino la bellezza stessa non determinano il rasa; è piuttosto lo stato ricettivo dell’osservatore a farlo. Come afferma Coomaraswamy, “le imperfezioni dell’immagine vengono annullate dal potere della devozione del devoto”.
Infine, la bellezza, secondo Coomaraswamy, è atemporale e trascende la fisica, ma la sua realtà va cercata solo nell’esperienza. Egli sottolinea che l’artista tradizionale si dedica completamente al bene dell’opera, agendo come un celebrante di un rito in cui esprime sé stesso senza consapevolezza intenzionale. Quest’arte, che trascende il tempo e l’individualità, emerge in armonia con una visione più ampia della vita, in cui la domanda fondamentale non è “Chi ha detto?” ma “Che cosa è stato detto?”. In questa prospettiva, tutto ciò che è vero, da chiunque sia stato detto, origina dallo Spirito.
L’artista al centro della cosmogonia
Leggermente diversa l’opinione dello storico delle religioni e orientalista tedesco Heinrich Zimmer (6 dicembre 1890, Greifswald, Germania- 20 marzo 1943, New Rochelle, New York, Stati Uniti).
Riflettendo sul ruolo dell’artista tradizionale, Zimmer lo considerava come “colui che trasforma la materia conferendole un significato superiore”. Come un eroe mitico, l’artista compie dunque una sorta di discesa nel profondo della sua coscienza, per poi emergere trasformato da una rivelazione che cerca di rappresentare attraverso la sua arte. Questa trasformazione della materia era secondo l’autore, una conseguenza della sua esperienza primaria, ma fungeva anche da veicolo per gli altri nell’esperienza sacrale.
Parola di esoterista
Una quarta testimonianza, in linea con le precedenti, seppure con qualche correzione nel tiro, è quella dell’esoterista René Guénon (15 novembre 1886, Blois, Francia- 7 gennaio 1951, Il Cairo, Egitto). Conosciuto da alcuni anche come Shaykh ‘Abd al-Wahid Yahya dopo la sua esperienza tra i Soufi, egli sosteneva che le arti nacquero come veicoli di simbolismo e ritualità. “Ma nel corso del tempo”- affermava, “un lento declino trasformò queste espressioni sacre in giochi profani, lontani dal loro antico splendore”.
Artista “parte attiva”
Lo storico delle religioni Mircea Eliade (13 marzo 1907, Bucarest, Romania- 22 aprile 1986, UChicago Medicine, Chicago, Illinois, Stati Uniti) rifletteva sull’artista come un essere attivo, penetrante nelle profondità del mondo e della propria psiche, cercando di rivelarne le strutture ultime. Sostenve altresì che la ierofanizzazione della materia rivelava il sacro attraverso la sostanza, caratterizzando l’esperienza religiosa che dominava il mondo antico. L’opera d’arte era pertanto un portale verso livelli di coscienza più puri e sovrapersonali, sia per l’osservatore sia per l’artista.
La cosmogonia di Ernst Jünger
Lo scrittore tedesco Ernst Jünger (29 marzo 1895, Heidelberg, Germania-17 febbraio 1998, Riedlingen, Germania) meditava sul potere dei templi come accessi a distanze spirituali immense, portando l’osservatore a connettersi con un mondo oltre il fisico.
In questo contesto, l’arte diveniva non solo espressione di bellezza estetica, ma un mezzo per accedere a dimensioni spirituali più elevate, un portale verso una conoscenza sovrasensibile.
Per lo scrittore, attraverso l’osservazione e l’esperienza dell’arte, sia l’artista sia l’osservatore intraprendono un viaggio interiore, una discesa nel mistero dell’esistenza. L’opera d’arte diviene così un veicolo di trasmutazione, in cui la materia si trasforma in una dimensione di significato e rivelazione. La bellezza diventa l’accesso a livelli superiori di coscienza, un invito a contemplare il sacro nel quotidiano.
Cosmogonia, arte, artisti, attivi e passivi
Le opere d’arte, attraverso il loro simbolismo e la loro struttura, fungono da ponti tra l’umano e il divino, tra il visibile e l’invisibile?
Osservatori e artisti, entrambi partecipi del processo creativo, sperimentano un viaggio interiore, una catabasi verso il nucleo dell’esistenza?
E’ solo l’artista che, come un moderno Orfeo o un alchimista dell’anima, trasmuta la materia grezza in forme che, prima di essere fisiche, sono idealmente spirituali?
O l’arte trae valore da chi la osserva?
Ognuno tragga le proprie conclusioni.
Foto di Rodrigo de la torre da Pixabay
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