Classe politica in Italia, come è cambiata dalla prima alla quarta repubblica

Classe Politica. Con questa formula, uno dei maggiori teorici di scienza della politica italiani, Gaetano Mosca, individuò il criterio per distinguere le varie forme di governo. Secondo lo studioso palermitano (1858-1941), infatti, la formazione e l’organizzazione delle classi dirigenti sarebbe fondamentale per la definizione di un organismo politico. Ancor più dell’ideologia di cui esso è portatore.

A nostro parere, tale concezione è perfettamente applicabile al sistema politico della Repubblica italiana. Permette soprattutto di capire meglio i passaggi che si sono riscontrati tra una fase e l’altra della sua storia. Quelli che la stampa ha mediaticamente definito prima, seconda, terza repubblica, ecc.

La classe politica della prima repubblica

La prima repubblica italiana (1946-1992) era contraddistinta da una classe politica formata dai funzionari di partito. I suoi dirigenti erano tutti cresciuti nelle sezioni di partito. Avevano fatto carriera in base al tesseramento che erano riusciti a conseguire, per poi presentarsi alle varie elezioni e raggiungere le cariche rappresentative o di governo.

Tale sistema di reclutamento della classe politica era indipendente dall’ ideologia di cui il partito era portatore. Per quanto riguarda la scelta degli eletti, prevaricava anche la sovranità popolare. Erano infatti i partiti a indicare ai propri iscritti i candidati da votare. Eppure, tale sistema, di dubbia democraticità, aveva consentito a un paese distrutto dalla guerra di conseguire il suo boom economico. L’Italia ottenne un posto nel consesso delle più forti nazioni industrializzate (il G7).

Poi sorse lo scandalo di “tangentopoli”, guidato dalla magistratura milanese. Tutti i partiti collassarono in un sol colpo. Con la sola eccezione del PDS, erede del vecchio PCI. Anch’esso, però, nel 1998, rinunciò alla parola partito, trasformandosi in DS. A tale data, in piena “seconda repubblica” nessuna formazione politica, si chiamava più “partito”.

Seconda repubblica: spazio all’imprenditore fattosi da solo, ai manager e ai tecnocrati

Il primo governo di quella che poi fu definita “seconda repubblica” fu affidato a un tecnocrate, Giuliano Amato. Poi l’elettore degli ormai dissolti partiti di governo dette fiducia a Silvio Berlusconi. Nel 1994, l’imprenditore milanese conseguì uno straordinario consenso presentandosi come l’uomo di successo che si era fatto da solo. Due anni dopo, l’opposizione di sinistra gli candidò contro un manager pubblico: Romano Prodi. I due manager, Berlusconi e Prodi si alternarono nella direzione del governo italiano, tra il 1994 e il 2011. Entrambi, però, dovettero affidarsi a dei tecnocrati.

I governi Berlusconi e Prodi, infatti furono pieni zeppi di tecnici. Il primo si affidò a Lamberto Dini che, per alcuni mesi, guidò anche un governo tecnico. Chiamò Giulio Tremonti, il diplomatico Renato Ruggiero, Antonio Marzano, Domenico Siniscalco. Il secondo chiamò al governo ancora Dini, Giovanni Maria Flick e Antonio Di Pietro. Poi, gli economisti Andreatta, Ciampi, Padoa-Schioppa, la parlamentarista Linda Lanzillotta.

Tra i due principali premier di questo periodo entrò a Palazzo Chigi un solo uomo politico formatosi alla scuola dei partiti: Massimo D’Alema. A lui successe ancora Giuliano Amato. All’ultimo governo Berlusconi subentrò il governo “tecnico” di Mario Monti, sino al 2013.

La classe politica della seconda repubblica, al potere tra il 1992 e il 2013, quindi, fu guidata da manager e formata per i suoi elementi principali da tecnocrati. I risultati oggettivi non furono migliori di quelli della prima, quanto meno dal lato economico, dove i tecnocrati abbondavano.

Il fallito tentativo di riconduzione della politica nell’ambito dei partiti

Nel 2007 nacque la formazione che, dopo molti anni, conteneva nuovamente la denominazione di “partito”: il Partito democratico. Fu un tentativo di tornare ai criteri di formazione della classe politica dirigente della prima repubblica. Il PD giunse al potere nel 2013 e, per un quinquennio, guidò la politica italiana con tre Presidenti del Consiglio formatisi alla scuola del partito o di quelli precedenti: Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.

Renzi, il più intraprendente e ambizioso di questi leaders, capì che il tentativo poteva avere successo solo mostrando al paese una classe politica giovane, tecnicamente preparata e avulsa dalle pastoie burocratiche ereditate dal passato. Per questo volle fortemente quella complessa riforma costituzionale che lo travolse insieme alla “terza repubblica”.

La fine dei governi a guida PD fa riflettere sull’esattezza delle considerazioni dell’antico politologo Gaetano Mosca. Il PD era riuscito a far uscire l’Italia da una crisi economica epocale. Ma ciò che fa presa sul popolo non è la bontà delle leggi o dei sistemi costituzionali, né i risultati in campo economico e sociale. Il consenso della volontà popolare si indirizza verso la “classe politica” su cui ripone la propria fiducia.

La classe politica dell’odierna “quarta repubblica”

Le elezioni politiche del 2018 hanno consegnato la maggioranza relativa del Parlamento al Movimento 5 Stelle, formato da candidati assolutamente estranei alla politica, sino a pochi anni prima. Le successive “europee” di quest’anno hanno espresso come primo partito la “Lega” di Matteo Salvini.  Sia il M5S che Matteo Salvini hanno avuto un incredibile successo capendo e interpretando le caratteristiche della nuova classe politica voluta dagli italiani.

Nella “quarta repubblica”, il popolo italiano vuole che a guidarlo sia gente come lui, nello specifico “Uno di noi”. Non importa se non abbia esperienza politica o manageriale o capacità e conoscenze tecniche. Per questo Salvini si presenta ai comizi indossando i simboli di chi lo ascolta. L’importanza è che provenga o dimostri di provenire dal popolo.

Non importa nemmeno quello che il nuovo politico proclama. Può essere tutto o il contrario di tutto. Può anche andare contro il buon senso o le più elementari norme della convivenza civile. Essendo “uno di noi”, il nuovo (o i nuovi) leader sono meritevoli di fiducia e hanno sempre ragione. Magistratura permettendo.

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