Chi nasce tondo può morire quadrato… sempre che si chiami tortellino

tortellini brodo

Natale è alle porte e già se ne percepiscono le avvisaglie: per gli auguri e l’immancabile «a te e famiglia» c’è ancora tempo, ma è già il periodo del «se ne riparla dopo Natale» perché, per quanto sotto tono per mille motivi, «il Natale quando arriva arriva» come ammiccava Renato Pozzetto in un noto spot pubblicitario.

E allora tutti, chi più chi meno, si è preda di una sorta di frenesia prenatalizia: forse un modo per giustificare la pigrizia a cui si abbandoneranno coloro che non saranno impegnati a prepararlo il Natale degli altri: una sorta di torpore digestivo motivato dal succedersi di lunghe sessioni a tavola in quel triduo culinario che inizia con la Vigilia e si conclude la Cena di Santo Stefano per i pochi maratoneti che si «sacrificheranno», bontà loro, a consumare gli avanzi perché «mica vorremo buttare la grazia di Dio no?».

Nella nostra mente già si prefigurano le pietanze tipicamente natalizie: il pesce, in mille forme, della Vigilia e gli immancabili tortellini in brodo del Pranzo di Natale.
Da Nord a Sud, da Est a Ovest, isole comprese, la festa più sentita dell’anno è diventata, almeno a partire dagli anni ’50, anche la più omologata dal punto di vista culinario e le preparazioni tipicamente locali, la ricchezza dell’Italia gastronomica, verranno ospitate in un angolino del buffet solo perché «è tradizione» come lontani parenti un po’ noiosi che bisogna comunque invitare «almeno a Natale».

La rivalsa della cucina settentrionale

Se nella maggior parte dell’anno il Sud detta il menù familiare, con la pasta regina incontrastata, il suo fido scudiero pomodoro di San Marzano e gli ortaggi consumati anche fuori stagione come le zucchine e le melanzane, il giorno di Natale il «triangolo gastronomico dell’opulenza», che ha i suoi vertici in Asti, Bologna e Milano si prende la sua rivalsa, con i bolliti monferrini, i tortellini emiliani ed i dolci lombardi: torrone e panettone su tutti, appena incalzati dal pandoro veronese.
Proprio i tortellini emiliani, tuffati nel brodo di carne (che dovrebbe essere di manzo e di gallina, ma il cappone specie al Centro ed al Sud ancora dice la sua) hanno ormai preso il sopravvento su tutte le paste ripiene locali che pure da tempo immemorabile accompagnavano il Pranzo di Natale ed è una storia, quella dei tortellini di Bologna, che vale la pena di raccontare.

Breve storia dei tortellini di Bologna

Se la Storia la scrivono i vincitori, ed i tortellini di Bologna sono i vincitori per distacco sui loro competitori, è giusto che la si racconti come vuole la Dotta confraternita del tortellino, che la riduce ad una disputa tra Modena e Bologna risolta, diplomaticamente, a metà strada riconoscendo a Castelfranco Emilia, piccolo comune equidistante tra le due città rivali, amministrativamente modenese, ma sotto l’Arcidiocesi di Bologna, la paternità dei tortellini.

La storia, con buona pace dei dotti emiliani, è un po’ più complessa ed il tentativo, per la verità assai ben fatto, di trovare nei sacri testi culinari ed in altri riscontri storici un filo conduttore che riconduca tutto all’Emilia non convince completamente.

La realtà è che il tortellino bolognese è uno dei primi brand della cucina italiana e come tale si è diffuso almeno a partire dalla metà del 1700 ed il motivo del suo unanime apprezzamento è innanzitutto nella materia prima: ricca, ma straordinariamente disponibile in quelle zone, come la sfoglia all’uovo, il maiale (il lombo, la popolare mortadella e sublimato nel prosciutto crudo), il parmigiano reggiano, il burro.

Tutti ingredienti che rimandano ad un’idea di lusso che ora non ci appartiene più, che anzi pensiamo al grasso come sinonimo di colesterolo, ma che in un’Italia povera in cui la carne era per molti un miraggio, che costruiva le sue mille paste ripiene con ingredienti assai più poveri, fatti di sfoglie di acqua e farina, di ricotta e di erbe spontanee, hanno fatto presa immediata non appena le condizioni economiche sono migliorate.

Tortelli e tortellini, dolci, salati, in brodo grasso o addirittura fritti, dolci e salati assieme, secondo l’uso, che ora a molti fa storcere il naso, di rompere il confine ora invalicabile tra sale e zucchero, si ritrovano nella letteratura culinaria più antica accomunati esclusivamente dalla forma, di piccola o piccolissima tórta, la quale, nonostante l’etimo incerto, non sembra derivare da «tòrta» intesa come participio passato del verbo torcere.

Un sorta di piccolo o piccolissimo contenitore di sfoglia all’uovo, o addirittura di pasta frolla, formato da due dischi tondi sovrapposti o da un solo disco ripiegato a metà e richiuso a mezzaluna, che pure si ritrova nelle preparazioni tradizionali antecedenti: nei tordelli lucchesi e soprattutto nei marubini cremaschi, sull’origine dei quali si è a lungo soffermato Michele Scolari il quale vi ha trovato strette parentele con preparazioni arabe e persiane.

Che la forma del tortellino che conosciamo oggi, il seducente ombelico di Venere, sia tutto sommato un accattivante approdo moderno se non contemporaneo lo attesta l’Apicio Moderno del romano Francesco Leonardi, che data tra la fine del 1700 ed i primi dell’800, il quale così descriveva la «Zuppa di Tortellini alla Bolognese»: «Fate una sfoglia come la precedente. Pestate nel mortajo del petto di pollo arrosto, aggiungeteci midollo di manzo ben pulito, parmigiano grattato, un pezzetto di butirro, sale, noce moscata, cannella fina, e due rossi d’uova crudi. Tagliate la sfoglia sudetta con una piccola stampa rotonda, ponete in ciascheduna di queste rotelle un pocolino della dose, bagnatele all’intorno con uovo sbattuto, e copritele coll’altra rotellina».

Lo stesso Leonardi, peraltro, conosceva la forma ripiegata tipica del tortellino contemporaneo e ne suggeriva la fattura, solo che, fedele al suo reale aspetto, lo chiamava «cappelletto» mentre ora cappelletti e tortellini si distinguono per la provenienza geografica, romagnoli o di altre regioni i primi, emiliani i secondi, e soprattutto per il ripieno che nei cappelletti romagnoli è di formaggio ed altrove è di carne di diversa composizione e fattura rispetto a quella bolognese.

Nel cappelletto del Leonardi, come si riscontra ancora oggi in taluni tortellini, tortelli e cappelletti, la singola sfoglia tonda, ospitata la piccola noce del ripieno, veniva ripiegata a metà a mo’ di agnolotto ed i due lembi uniti tra loro saldamente.

A pochi chilometri, in quel ferrarese che dal punto di vista gastronomico vive di vita propria, si trovano invece, con forma analoga, i cappellacci. ripieni dell’immancabile zucca violina, formaggio grana e noce moscata.

Meno caratterizzati, al punto di farli apparire un’imitazione, sono i cappelletti alla romana, che dai tortellini emiliani differiscono per il ripieno, simile, ma crudo, a quello del Leonardi con l’aggiunta del cervello d’abbacchio, che sembrano più che altro una delle tante appropriazioni della cucina romanesca la quale, tradizionalmente, getta invece nel popolare brodo di carne, prevalentemente di pollo o di cappone, stracciatella all’uovo o «pasta grattata», quest’ultima d’aspetto e fattura simile alla fregula sarda.

Cos’ha decretato la diffusione nazionale del tortellino emiliano al cospetto di competitori regionali di tutto rispetto e che probabilmente, quanto a gusto e qualità, non hanno nulla da invidiargli?
La loro opulenza, cui si è già fatto cenno, ha svolto un ruolo importante, ma più di essa ha influito un’intuizione commerciale: quella di trasformare una preparazione tipicamente casalinga, che richiede una manualità spiccata, in un prodotto industriale, cosa inusitata per la pasta fresca e resa possibile da una sapiente essiccazione della sfoglia all’uovo e dalla preventiva cottura del ripieno.
Come narra la stessa confraternita, dagli anni ’40 del ‘900 il tortellino emiliano iniziò a diffondersi anche nelle salumerie.

Era un prodotto meno pregiato rispetto a quello tipicamente familiare, ma affrancava dalla necessità della lunga e laboriosa preparazione casalinga.
Fu un successo che consentì l’esportazione dei tortellini anche all’estero e li impose a livello internazionale come la «pasta ripiena italiana» per antonomasia.
Con il secondo dopoguerra ed il boom dei prodotti alimentari industriali, sostenuti dalle accattivanti pubblicità del Carosello, i tortellini emiliani iniziarono a diffondersi nell’intera penisola.
Protagonista di questa iniziale diffusione fu la ditta Fioravanti, che ebbe stabilimenti in tutta Italia, col suo Carosello «plin, plin, tortellin» e che nel 1962 brevettò un nuovo procedimento di essiccazione e conservazione dei tortellini che ne consentiva la protrazione della scadenza e la conservazione a temperatura ambiente.

Con l’industrializzazione si moltiplicarono le ricette, tutte rigorosamente «autentiche», «originali» e, ovviamente depositate il che, paradossalmente per un prodotto unanimemente ritenuto tipico, ne ha impedito l’ottenimento dell’Igp, riconosciuta invece ai cappellacci ferraresi.
Solo nel 1974 la Dotta confraternita del tortellino ha depositato presso un Notaio la ricetta del «Tortellino di Bologna» la quale, dal 2008, è depositata anche presso la Camera di Commercio di Bologna.

I Tortellini di Bologna figurano poi nell’edizione corrente dell’Elenco regionale dei prodotti agroalimentari tradizionali dell’Emilia-Romagna.

Singolare, almeno nei modi, è stata la scelta della ricetta autentica dei Tortellini di Bologna, frutto di un concorso fra i lettori del Resto del Carlino indetto dalla confraternita in collaborazione con l’Accademia Italiana della Cucina.

Ad aggiudicarselo, assieme alla gloria imperitura, la signora Maria Grimaldi in Lanzoni da Borgo Panigale la cui ricetta, scritta in bella grafia, si può trovare sul sito della confraternita.
I tradizionali dischi di sfoglia sono sostituiti nella ricetta depositata dalla confraternita da quadratini di circa tre centimetri di lato, al centro dei quali si pongono le noci di ripieno per poi essere piegati a triangolo e da triangolo trasformarsi, uniti gli angoli opposti, in tortellini.

Un’operazione che peraltro fanno egregiamente anche le macchine, con il loro ipnotizzante ticchettio, che negli anni ’70 venivano esibite nelle vetrine dei laboratori di pasta artigianale ad attestare la confezione al momento e giustificare, con la meccanizzazione, i quantitativi.
E fu così che il tortellino, da tondo che era nato, morì, annegato nel brodo bollente, quadrato.

Tortelli e tortellini contemporanei

Se la Dotta confraternita del tortellino, che è anche un marchio registrato, ha il merito di essere quantomeno un punto di riferimento per tutti coloro che, a livello artigianale o casalingo, vogliono preparare i tortellini bolognesi nel rigoroso rispetto della tradizione, va detto che, proprio in virtù di quanto si accennava prima, cioè il mancato riconoscimento della Igp e la forte industrializzazione registratasi su questo particolare prodotto, il tortellino, più spesso indicato come tortello o cappelletto, si è diffuso, a livello artigianale o industriale, su tutto il territorio nazionale con significative deroghe o variazioni rispetto ai canoni fissati dalla confraternita tant’è che, al di fuori dell’Emilia, sono davvero pochissimi coloro che si attengono rigorosamente alla ricetta depositata.

A consultare lo shopping on-line non c’è che l’imbarazzo della scelta, tanto ricca è l’offerta di questo prodotto in mille versioni agevolate anche dalle nuove tecnologie di conservazione: refrigerazione e sottovuoto in atmosfera modificata.

Convivono accanto a questa realtà fortemente tecnologica, che vede ormai nell’azienda veronese Giovanni Rana il suo principale riferimento commerciale, piccoli laboratori artigianali, spesso di quartiere o con produzioni relativamente limitate e di qualità elevata come «Meraviglie in Pasta», il laboratorio zagarolese di Angela Fiorini e delle figlie Valentina, Eleonora e Beatrice, o realtà intermedie, ma ancora connotate dall’artigianalità e dall’elevata qualità degli ingredienti come, per restare alla zona di Roma, il «Pastificio Secondi».

Affinché tutti possano mettere in tavola il giorno di Natale un fumante piatto di tortellini in brodo che ovviamente saranno i più buoni mai assaggiati dai commensali.

Qualcuno, per la verità, si ostina ancora a farli rigorosamente a mano in casa tramandando la tradizione delle sfogline, le abilissime confezionatrici di tortellini capaci di stendere col mattarello, con una danza ancestrale, la sfoglia sottilissima, ma tenace che è lo scrigno del tortellino.

I piccoli ombelichi di Venere, talvolta veramente piccolissimi, occupano allora tutto lo spazio disponibile ordinatamente allineati sulle tovaglie o addirittura sulle lenzuola infarinate affinché si asciughino il giusto.

Sembra invece essersi persa la tradizione, cui accennava Antonio Pennacchi nel suo «Canale Mussolini», d’inserire nel ripieno dei tortellini un bottone da camicia.
Non un dispetto, né uno scherzo di cattivo gusto, visto che tutti i commensali ne erano consapevoli, ma un monito a non ingurgitare i preziosi scrigni, a masticarli lentamente per non giocarsi un dente o una capsula, metafora di un mondo contadino sempre in allerta, vigile rispetto alla sorte che da un momento all’altro può ribaltare la gioia in dolore. La fortuna in sfortuna.

La zuppiera fumante colma di brodo e tortellini sta per essere portata a tavola: preparatevi a battere le mani.

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