Amy, una chiassosa solitudine

La-compianta-Amy-WinehouseVentisette anni sono troppo pochi per imparare a vivere. Ventisette anni non bastano per comprendere i propri demoni, figuriamoci per combatterli. E non bastano per decidere da che parte stare, per sapere cosa è meglio. Si vive e basta e ci si prende tutto quello che si incontra, alla fine si può anche perdere. Se poi alla fatica di vivere si aggiunge un successo non sperato, un amore imperfetto e distruttivo, le cose si complicano maledettamente.

550w_showbiz_amy_winehouse_20Amy Winehouse era un’adolescente in carne, desiderosa di andare via di casa, pochissimi amici, qualche canna e la passione per il jazz. Voleva scrivere le sue canzoni, che erano poi le sue storie. Si innamorava con passione e senza freni, come è giusto che sia a vent’anni e poi viveva, viveva e basta. Fino al primo album, Frank, scritto con il produttore americano Salaam Remi.

Esplode così il fenomeno Amy Winehouse. Cominciano ad arrivare le pressioni della casa discografica, i concerti con un pubblico ben più numeroso di quello dei piccoli jazz club a cui era abituata e che preferiva, i Grammy, le interviste, perfino il padre che torna.

unnamed (3)Nel frattempo incontra Blake Fielder-Civil, non certo un santo, oltre che un professionista del mal di vivere. A lui è attribuita la fine prematura della cantante. Dopo il loro matrimonio, avvenuto a Miami nel 2007, con sei amici, è lui a introdurla al crack, all’eroina e alle anfetamine. Ma la teoria che sia stato lui a rovinarla non regge pienamente. Amy si era innamorata di un ragazzo con il quale voleva fare tutto, a lui ha dedicato l’intero album Back to Black quando l’ha lasciata per un’altra. Per lui ha scritto: “Ci siamo detti addio solo a parole/ io sono morta un centinaio di volte/ tu torni da lei e io ritorno da noi. Ti amo tanto, non è abbastanza, tu ami la cocaina, io amo il fumo e la vita è come una canna fumaria/ e io sono un minuscolo penny che prova a risalire”. Un amore non corrisposto, distruttivo e imperfetto non è storia di pochi, sopratutto a quell’età. Ma nel caso di Amy, la droga e un’anima fragile hanno accelerato la discesa, mentre intorno a lei c’erano solamente i flash assillanti dei fotografi, una madre assente, un padre mercenario e qualche amico non abbastanza forte.

Schermata-2015-09-02-alle-18.28.02Questo è quello che ci dice il docufilm di Asif Kapadia. “Amy. The girl behind the name”. Il regista racconta con onestà la vita della cantante inglese, cominciando da quel video amatoriale registrato da una delle sue più care amiche alla quale Amy dedica un “Happy birthday to you” che già gronda un meraviglioso talento. Un racconto che non pretende di spiegare perché Amy Winehouse sia morta, a soli 27 anni, sola, nella sua casa di Camden, né vuole trasformare la donna in un mito. Senza scomodare Freud sulle ragioni della sua depressione e della bulimia, Kapadia ci restituisce quella scapestrata ragazza così com’era: molto altro e molto di più rispetto all’immagine che si era costruita, ai capelli cotonati, al trucco che cola, all’amore maledetto con Blake. E per farlo il regista si serve di vecchi video amatoriali, delle testimonianze dei pochi cari amici, senza ipocrite interviste, con episodi emblematici, come quando sta per ricevere il Grammy nel 2008, e  grida: “Oh dad, but those are Tony Bennet and Natalie Cole!”. Kapadia, sopratutto, ci fa conoscere Amy attraverso le sue canzoni. A chi le chiedeva nuovi brani, lei rispondeva: “Scrivere è difficile, faccio quello che posso”.

Grazie Amy.

di Patrizia Angona

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