La corte di Cassazione ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato dagli avvocati di Massimo Ciancimino, Francesca Russo e Roberto D’agostino, contro la decisione del gup Riccardo Riccardi di distruggere senza il contraddittorio tra le parti, le intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro Nicola Macino e il capo dello Stato, in quanto lesivo del diritto di difesa.
Secondo gli avvocati dalle telefonate si potrebbero trarre elementi utili alla difesa di Ciancimino, imputato nel procedimento per associazione mafiosa e calunnia.
L’impugnazione sarà valutata dalla sesta sezione della suprema Corte di Cassazione il 18 aprile, di conseguenza la distruzione delle intercettazioni, fissata per il 13 marzo, dunque slitta.
Ricordiamo che le telefonate erano state intercettate nell’ambito della trattativa Stato-Mafia, secondo cui durante il periodo delle stragi del ’92, i vertici politici, istituzionali e mafiosi cercarono un punto d’incontro per fermare il bagno di sangue.
L’inchiesta dura da quattro anni ed è stata coordinata inizialmente dal Procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, che l’ha reso nota ai media. Da quel momento si è aperto uno scontro istituzionale tra il Colle e la Procura di Palermo, culminato con il conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente Napolitano davanti alla Consulta. Questa ha dato ragione al Quirinale, Ingroia è stato “deposto“ dalla Procura di Palermo e trasferito in Guatemala per conto dell’Onu ed è stata disposta la distruzione delle intercettazioni, come disposto dalla corte Costituzionale.
L’ipotesi della Procura della Repubblica di Palermo è stata ritenuta convincente dal giudice per l’udienza preliminare Piergiorgio Morosini, che ha disposto il rinvio a giudizio dell’ex ministro Nicola Mancino, del senatore Marcello Dell’Utri, dei generali dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subrani, e dell’ex colonnello Giuseppe De Donno. Con loro, alla sbarra degli imputati, i mafiosi Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca (collaboratore di giustizia) e Massimo Ciancimino – il figlio dell’ex sindaco di Palermo – che nel 2008 rivelò la presunta trattativa.
I pm Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia hanno affermato che, «gli imputati hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato Italiano e in particolare del governo della Repubblica». In questa vicenda Nicola Mancino , ex ministro degli Interni, è accusato di falsa testimonianza, mentre Ciancimino è accusato di calunnia verso l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Il processo partirà il 27 maggio prossimo.
Uno dei personaggi chiave della vicenda fu l’ex ministro Calogero Mannino (sarà giudicato col rito abbreviato), il quale avrebbe avviato la trattativa con Cosa nostra già nei primi mesi del 1992, per il timore di essere vittima di un attentato. Avrebbe poi esternato i suoi timori ai vertici dei Ros, il generale De Donno e l’ex colonnello Mori, che avrebbero avviato una trattativa con la mafia tramite l’ex sindaco Vito Ciancimino.
Ciancimino dunque rappresenterebbe l’anello di congiunzione tra Stato a Mafia, allora rappresentata dal boss corleonese Totò Riina , quest’ultimo avrebbe inviato un “papello”, sul quale sarebbero state inserite le richieste di Cosa nostra per bloccare la stagione dei massacri, come quelli dei pubblici ministeri Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Di questo sospetto accordo ne sarebbe stato a conoscenza anche Mancino, che sarebbe stato informato dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, a sua volta avvertito dell’iniziativa del Ros di dialogare con la mafia.
Tra i referenti politici di Cosa nostra ci sarebbe stato anche l’attuale senatore del Pdl, Marcello Dell’Utri. Secondo i pm, infatti, dal 1994 «i capimafia Bagarella e Brusca prospettarono al capo del governo in carica, Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano (deceduto) e di Dell’Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti all’associazione Cosa nostra (tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario). Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle istituzioni».
di Simona Mazza
foto: controcopertina.com
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