Il senso del dovere. Paolo Borsellino

IMG_7158Una tristezza smisurata, quasi come una rassegnazione, quella della non conoscenza della verità. La restituzione della verità sarà mai possibile?

La strage di Via d’Amelio, quella del 19 luglio 1992, dove persero la vita 25 anni fà il Giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’attentato avvenne sotto la casa della madre di Paolo Borsellino, Maria Pia Lepanto, un gesto profondamente “meschino”.

“Decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati” – questa è una delle pochissime dichiarazione della squadra mobile che accorse poco dopo l’accaduto.

I controlli? Una 126 verde scuro, che nonostante poteva essere in circolazione all’epoca, non destò nessun sospetto. Perché Borsellino non venne avvisato dell’arrivo dell’esplosivo? A chi spettava controllare? Una scena del crimine profondamente inquinata, perché non è stata immediatamente isolata? La famosa agenda rossa che fine ha fatto? Ce ne sarebbero tante di domande, ma di risposte oggi non ve ne sono state date.

Il primo processo comincia nel settembre 1992, guidato da questore Arnaldo La Barbera, che riuscì ad individuare ed arrestare i pregiudicati Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino i quali si autoaccusarono del furto della Fiat 126 utilizzata nell’attentato. Scarantino fu condannato a 18 anni di pena.

Il secondo processo, del gennaio 1996, rinviò a giudizio il boss Salvatore Riina, assieme ad altri suoi fedelissimi, accusato da Scarantino di aver ideato l’uccisione del Giudice Borsellino. Lo stesso Scarantino modificò varie volte la sua deposizione affermando anche di esser stato costretto a collaborare dal Giudice La Barbera.

Nel giugno 2008 Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e si autoaccusò del furto della Fiat 126 utilizzata nell’attentato, smentendo la versione data dai collaboratori di giustizia Scarantino e Candura. In seguito a queste dichiarazioni, la Procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d’Amelio: nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Scarantino, Candura e Andriotta dichiararono ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dal questore La Barbera e dal suo gruppo investigativo, che li sottoposero a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso, mentre l’ex collaboratore Calogero Pulci sostenne di avere agito di sua iniziativa perché, a suo dire, voleva aiutare gli inquirenti[1].

Ma oltre ad alcune condanne, relative all’organizzazione “tecnica”, e i relativi processi annessi, vi sono state anche indagini che hanno visto l’inclusione di noti personaggi politici ed istituzionali. Perché questo? Il Giudice Paolo Borsellino si stava occupando dell’illecita gestione dei grandi appalti pubblici, dove il front politico locale e nazionale avevano rispettivamente ruoli ben definiti. Infatti le indagini ipotizzarono un interesse che alcuni ambienti politico-imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l’approfondire delle indagini.

Nel 2003, il Giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò tale indagine in quanto priva di prove idonee alla formazione dell’accusa.

La “Trattativa Stato-Mafia” ancora oggi, non ha decretato nessun colpevole, nonostante siano state richieste testimonianze a personalità vicine al Giudice.

Stesso filone narrativo per l’Agenda Rossa del Giudice.

Come afferma Fiammetta Borsellino, terza figlia del Giudice in un’intervista al Corriere:

“Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili. Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».

Il Giudice Paolo Borsellino è stato esempio dell’agire legale nella società civile. Il suo testamento morale è in quel discorso in ricordo dell’amico Giovanni Falcone:

«La lotta alla mafia non doveva essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità». Come? « Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro. Facendo il nostro dovere».

Vorremmo continuare a dire che non è ancora tutto finito.

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_via_D%27Amelio

 

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