Sentenza Eternit: ingiustizia è fatta!

eternit“Eternit: ingiustizia è fatta!”

Questa la scritta che i manifestanti riuniti a Piazza Cavour a Roma davanti all’ingresso della Corte di Cassazione, hanno fatto sventolare nella tarda serata di mercoledì scorso. La frase, scritta a grandi lettere sulla bandiera italiana, quella stessa mattina era, però, molto diversa ed era una richiesta di giustizia per le tante vittime dell’amianto.

Il 19 novembre, infatti, si è celebrato il terzo grado di giudizio del processo Eternit, la più grande causa mai intentata in Europa, e al mondo, sul fenomeno dei danni alle persone e alle cose provocati dall’amianto, causa che ha visto come imputato l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, condannato in primo grado a 16 anni e a 18 in appello per disastro ambientale doloso.

Schmidheiny tra il 1976 ed 1986 ricoprì il ruolo di amministratore delegato del gruppo Eternit che produceva un materiale, l’eternit appunto, utilizzando l’amianto, sostanza la cui polvere ha effetti cancerogeni. Secondo l’accusa i vertici di Eternit erano a conoscenza già dagli anni ‘70 che l’inalazione delle polveri di amianto provocava malattie letali, ma  avrebbero scelto comunque di proseguire nelle lavorazioni nocive ed, anzi, di mettere a tacere le voci in proposito.

Quattro gli stabilimenti in Italia, tutti chiusi nel 1986, a causa delle numerose morti causate dall’amianto tra gli ex lavoratori. Il dramma, però, non si è concluso con la chiusura delle strutture  ed il numero dei decessi non solo ha continuato a crescere, ma si stima che il picco si raggiungerà nel 2025 dato che il periodo di latenza dell’amianto va dai 25 ai 40 anni.

Mercoledì mattina in aula i parenti delle vittime attendevano in silenzio, nelle ultime file, che la Suprema Corte facesse giustizia condannando definitivamente Schmidheiny, unico imputato dopo la morte, nel 2013, di Louis De Cartier anch’egli a capo delle multinazionale insieme all’imprenditore svizzero.

Il Procuratore Generale, però, ha lasciato tutti senza parole chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna, al fine di dichiarare la prescrizione del reato. Il problema, ha spiegato in quasi due ore di requisitoria il P.G., è che il reato contestato non è l’omicidio, ma il disastro ambientale, reato che si è ormai prescritto e, malgrado egli stesso ritenga l’imputato responsabile, il suo compito è quello di applicare il diritto ed il diritto prevede l’annullamento della condanna.

La reazione a tale richiesta è stata di sgomento e stupore e dal fondo dell’aula è partito un debole applauso sarcastico dei familiari. In questo modo, hanno dichiarato subito dopo alcuni di loro, “non si potrà mai incriminare nessuno per disastro per le morti di amianto, perché le malattie si manifestano a distanza di molto tempo ed è questa latenza che protegge chi ha commesso questo crimine di cui qui noi rappresentiamo il segno più evidente della sofferenza. È come se le vittime fossero morte due volte.”

Il processo è andato avanti per tutta la giornata, moltissimi gli avvocati, delle parti civili e della difesa, che si sono avvicendati davanti alla Corte fino alle 19, ora in cui i giudici si sono ritirati  comunicando che alle ore 21 sarebbero rientrati in aula per comunicare la loro decisione.

Nessuno si aspettava una conclusione in giornata, nelle settimane precedenti si era parlato di due o forse più udienze, data l’importanza della causa ed il numero, quasi duecento, di legali e parti presenti, ma la richiesta del Procuratore Generale aveva già fatto capire che le cose sarebbero andate in modo diverso.

Dopo due ore di Camera di Consiglio la Suprema Corte di Cassazione è rientrata per dare lettura del verdetto: il reato è prescritto, la precedente sentenza di condanna va annullata e, ulteriore beffa, essendo la prescrizione maturata prima della sentenza di primo grado, non ci sarà alcun risarcimento per nessuna delle parti offese.

È a questo punto che sono esplosi lo sdegno e la rabbia dei parenti delle vittime che hanno iniziano ad urlare ai giudici “Vergogna, vergogna! Siete servi dei padroni!” senza risparmiare neanche il Procuratore Generale al quale si sono rivolti chiamandolo “assassino” perché è da lui che è arrivata la richiesta di prescrizione, lui che, in quanto pubblica accusa e rappresentante dello Stato avrebbe dovuto pretendere che venisse fatta giustizia ed, invece, ha chiesto che l’unico colpevole di quelle morti venisse assolto.

Tra i tanti manifestanti, Romana Blasotti Pavesi, 82 anni, Presidente dell’Associazione familiari e vittime dell’amianto, venuta a Roma per avere giustizia per sua figlia, suo marito, sua sorella, suo nipote e sua cugina, tutte vittime del mesotelioma causato dall’amianto.

“La mia lotta” ha dichiarato dopo la lettura della sentenza “è cominciata nel 1982 e non ho mai smesso” anzi, ha assicurato di voler andare avanti “almeno per salvare le nuove generazioni. Ho una grande rabbia addosso, ma non riesco più neanche a piangere.”

La Corte di Cassazione, accusata di “non essersi occupata dei morti”, ha risposto in una nota che l’oggetto del processo era solo il disastro ambientale, rispetto al quale la Corte non ha potuto far altro che prendere atto dell’avvenuta prescrizione in totale applicazione di quanto stabilito dalla legge.

Sul punto sono arrivate le reazioni delle istituzioni e del mondo della politica, e da più parti si è dichiarato che bisogna intervenire con urgenza sulla prescrizione affinché non vi siano più sentenze come questa.

Intanto da Torino la Procura ha fatto sapere che la battaglia non è ancora persa, ora si può procedere per omicidio volontario.

A distanza di giorni da questa pronuncia storica che ha sconvolto il paese, a far riflettere non è solo il forte senso di ingiustizia che si prova pensando alle famiglie delle vittime, ma, soprattutto, le parole con le quali il Procuratore Generale ha concluso la requisitoria: “la prescrizione non risponde ad esigenze di giustizia, ma ci sono momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte.”

È tutto qui il senso di questo processo e di una sentenza con la quale si è proclamato a chiare lettere che non sempre la legge porta all’attuazione della giustizia perché, troppo spesso ormai, cade vittima dei suoi tecnicismi perdendo di vista il suo scopo principale che è quello di fornire garanzie ai cittadini tutelandone i diritti più essenziali.

Questa, per uno Stato di diritto, è la sconfitta più grande e forse è arrivato il momento di riunire queste due strade prima che sia troppo tardi.

di Gloriana Rescigno

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