E’ stata emessa la sentenza del processo che i media hanno battezzato “Mafia Capitale”. Secondo i giudici di primo grado, non sarebbero emerse implicazioni di stampo mafioso e si sarebbe riguardato di semplici associazioni per delinquere (due): una che corrompeva e gestiva gli appalti e che faceva capo a Salvatore Buzzi; l’altra che intimidiva e viveva di estorsioni, facente capo all’estremista Massimo Carminati, autodefinitosi “fascista” nel corso della sua deposizione. La giuria, quindi, non ha ritenuto affidabile per intero l’impianto accusatorio della Procura della Repubblica, illustrato dal sostituto procuratore Paolo Ielo.
All’indomani della sentenza, il procuratore generale Giuseppe Pignatone, ha dichiarato: «E’ vero, ho perso, ma a Roma i clan esistono e io non mi rassegnerò mai. A Roma le mafie esistono. E lavorano incessantemente nel traffico di stupefacenti, nel riciclaggio di capitali illeciti, nell’usura. Solo lo scorso giugno abbiamo sequestrato beni di provenienza mafiosa per 520 milioni di euro».
Personalmente, siamo d’accordo con il procuratore generale Pignatone, basta guardarsi intorno. Ma, allora, la Procura della Repubblica dovrebbe spiegarci per quale motivo, due anni fa, si è voluto assimilare a “cosa nostra” una struttura come Roma Capitale e la sua classe politica e amministrativa, contribuendo a un terremoto politico che ha gettato la città nel caos e nella paralisi amministrativa.
Inoltre, a tutti gli imputati furono applicate sin dall’inizio le misure restrittive della libertà conseguenti all’accusa di “associazione di stampo mafioso” ex art. 416 bis del codice penale e che, probabilmente non si sarebbero dovute applicare.
Estranea all’inchiesta la dirigenza comunale di ruolo
Tenendo ben presente il dettato costituzionale, secondo cui “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, diamo una scorsa ai nomi dei condannati in primo grado. Come hanno fatto giustamente notare alcuni sindacati, nessuno dei coinvolti proviene dalla dirigenza di ruolo di Roma Capitale.
Tra i dirigenti condannati, infatti, troviamo: Franco Panzironi, ex amministratore delegato AMA, durante l’amministrazione Alemanno e proveniente dall’UNIRE; Luca Odevaine, per fatti risalenti a quando era responsabile del tavolo migranti presso la prefettura e che in precedenza era stato assunto dall’esterno da Walter Veltroni come vice capo di Gabinetto; Angelo Scozzafava, anch’egli proveniente dall’esterno e nominato Capo Dipartimento dei servizi sociali sempre da Alemanno; infine, Carlo Pucci, ex dirigente dell’ente EUR, cioè al di fuori della struttura comunale.
Altri dipendenti coinvolti rivestivano ruoli minori o di assistenza ai politici ma il corpo della dirigenza comunale di ruolo è rimasto assolutamente estraneo all’inchiesta, dimostrandosi complessivamente una “forza sana”. Anche il dirigente recentemente arrestato (per accuse estranee al “mondo di mezzo”) non faceva parte dei ruoli della dirigenza capitolina, essendo un dipendente ministeriale in comando e nominato, a suo tempo, da Alemanno, capo del Dipartimento Ambiente.
I politici coinvolti
Diverso è il discorso relativo ai politici coinvolti, che risultano un buon “mazzetto”: Luca Gramazio, capogruppo PdL del comune di Roma in epoca Alemanno; Giordano Tredicine, consigliere PdL e figlio di uno dei più importanti venditori ambulanti di Roma; Mirko Coratti, PD, ex Forza Italia, ex UDC, presidente dell’assemblea capitolina durante l’amministrazione Marino, e Pierpaolo Pedetti, anch’egli consigliere PD, entrambi coinvolti per fatti svoltisi durante l’amministrazione Alemanno; Andrea Tassone, Presidente del Municipio di Ostia in epoca Marino.
Con separato giudizio abbreviato, è stato già condannato in appello Daniele Ozzimo, ex assessore della Giunta Marino per fatti relativi a quando era consigliere comunale PD, durante l’amministrazione Alemanno. Altri coinvolti fanno parte dell’imprenditoria romana.
Insomma, ferma restando la presunzione d’innocenza sino a sentenza definitiva, contemplata dalla Costituzione, sembra che “il mondo di mezzo”, al Comune di Roma abbia avuto mani libere in particolare durante l’amministrazione Alemanno in una platea che potremmo definire “bipartisan”; che successivamente Ignazio Marino si sia insediato senza rendersi conto del clima vigente, tanto da nominare alcuni degli imputati (Coratti, Ozzimo, Tassone) a posti di estrema responsabilità. Ma, come detto, tutto si sarebbe risolto in fenomeni principalmente di corruzione, coinvolgenti la cooperativa di Buzzi, politici di vari partiti, imprenditori e pochi impiegati.
Conclusioni
Ciò dovrebbe far riflettere anche su tutta la vicenda che ha coinvolto Marino, prima per quanto concerne le sue dimissioni (rassegnate e poi ritirate), poi per le contestuali dimissioni dei consiglieri che l’hanno fatto cadere. Per quanto riguarda le azioni di intimidazione e di estorsione che hanno portato alla condanna di Massimo Carminati e della sua gang e dell’esclusione anche di costoro dell’accusa di associazione mafiosa, preferiamo attendere di conoscere le motivazioni della sentenza per esprimerci in merito.
Dopo la sentenza, il tribunale ha disposto la scarcerazione di gran parte degli imputati, sottoponendoli in parte agli arresti domiciliari, in parte all’obbligo di firma. Restano in carcere i condannati alle pene maggiori, quali Massimo Carminati (20 anni) e Salvatore Buzzi (19 anni).
foto: iltempo.it
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