Maschere e cuore nel Pirandello di Liliana Cavani

E’ in scena al Quirino di Roma, fino al 22 aprile, Il Piacere dell’Onestà, con Geppy Gleijeses e Vanessa Gravina; regista la bravissima Liliana Cavani.

Pirandello scrive Il Piacere dell’Onestà nel 1917, subito dopo Così è (se vi pare). Sul finire di quello stesso anno, Gramsci scrive di lui: “E’ un ardito del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero”. Gramsci parla di esplosioni; per spiegare l’attenzione all’uomo, usa le immagini di un mondo che è in guerra da qualche anno. Il 1917 segna l’ulteriore espandersi dei conflitti: gli Stati Uniti si armano contro la Germania; a Pietrogrado infiamma la rivoluzione. Tuttavia, è anche l’anno in cui Freud pubblica la sua Introduzione alla psicanalisi e Langevin progetta un apparecchio simile al sonar, per lo scandaglio delle profondità marine. In un generale teatro di battaglie per la supremazia dell’uomo sull’uomo, dunque, esistono anche sguardi che si focalizzano sulla profondità, sia dell’essere umano, sia della natura. Pirandello non è da meno: scava nell’abisso; è una prerogativa della sua arte. In Baldovino, protagonista de Il Piacere dell’Onestà, c’è un sonar davvero unico che scandaglia l’essenza dell’uomo diviso non solo tra essere ed apparire, ma tra essere ed essere.

Per questo non è facile interpretare quel ruolo. Si rischia di centrare troppo l’uomo apparente e poco quello interiore o viceversa. Geppy Gleijeses, invece, attore, autore, regista di grande spessore, figlio d’arte del compianto Eduardo, eclettico interprete dei testi più impegnativi di drammaturghi come De Filippo, Pirandello, Faydeau, Wilde e Shaw, riesce a compiere un miracolo di interpretazione, muovendosi mirabilmente tra finzione scenica e verità emotiva; tra l’uomo che è, quello che appare, quello che diventa. Perché l’essere è anche divenire ed il divenire è racchiuso nelle parole. L’estrema sintesi di Piero Gobetti descrive perfettamente la fusione tra il dramma e la scrittura di Pirandello: “[…] E’ il vero rappresentante del mondo moderno, poeta sicuro e commosso della tragedia della dialettica”.

I personaggi sono fatti della stessa materia dei sogni, per dirla con Shakespeare, e gli attori, dunque, sono medium tra sogno e realtà. Nelle opere pirandelliane, però, e, soprattutto ne Il Piacere dell’Onestà, c’è un passaggio ulteriore che rende il recitare più complesso: il rapporto del pubblico con la realtà scenica staziona sull’uomo prima di arrivare al sogno. E’ un rapporto immediato, non c’è antefatto, non c’è il filtro di una chiara finzione; la scena si apre sulla storia già iniziata, come se, entrando in sala, il pubblico avesse raggiunto due amici nel bel mezzo di un loro discorso e, per non interromperli, si siede, ascolta, entra nella vicenda, comprende poco a poco. L’attore, oltre a stringere un legame con il sogno, dunque, deve immergersi in un ruolo che è maschera, ma che è anche uomo, perché, nei personaggi pirandelliani, c’è tutta la lacerazione dell’animo umano. Per fare questo non deve “solo” recitare, ma lavorare su se stesso. Pirandello, nel parlare dei suoi personaggi, sottolinea l’identificazione di essi con l’uomo, un uomo chiamato a guardarsi dentro e, forse, a non piacersi troppo: “Quando uno vive, vive e non si vede: orbene, fate che si veda nell’atto di vivere, in preda alle sue passioni, ponendogli uno specchio davanti: […] se piangeva non può più piangere, e se rideva non può più ridere”.

La trama è un gioco di specchi: Baldovino, uomo dalla moralità disponibile a bassi intrighi, viene scelto per sposare Agata, incinta di un uomo già ammogliato, sebbene prigioniero di un’unione fallita, il marchese Fabio Colli. Il matrimonio di facciata tra Agata e Baldovino dovrebbe coprire lo scandalo e, al contempo, consentire il prosieguo indisturbato della tresca extraconiugale dei due amanti. L’uso del condizionale, però, non è casuale: dovrebbe

La metamorfosi di Baldovino è meravigliosa e trascinante; l’inversione del senso di rispettabilità tra Baldovino e Fabio Colli è dirompente ed assolutamente moderna.

Vanessa Gravina e Geppy Gleijeses

E’ un uomo intelligente, Baldovino, con una vocazione per il ragionamento e l’elucubrazione teorica. La sua filosofia, però, non è fine a se stessa, ma segna il suo percorso nell’onestà: da sofisma si fa confessione, verità; e la verità svela infine il sentimento. L’interpretazione di Gleijeses segue questa maturazione del ruolo, questa coscienza che sale nel personaggio-uomo, nella maschera smascherata, nella maschera nuda. E’ bravissimo. Si muove lentamente, all’inizio, con la pacatezza di chi ha ordinato il proprio e l’altrui comportamento in caselle prestabilite. Da un lato gli ammiccamenti, che fanno intendere il lato comico di quella tragicommedia in cui decide di entrare; dall’altro, un parlare posato, misurato. In alcuni momenti mi ha fatto tornare alla mente il mio amato Gino Cervi nel commissario Maigret: gli stessi occhi indagatori della realtà che lo circonda, lo stesso aplomb, la stessa capacità di leggere oltre le parole della gente. Quando i sentimenti del personaggio fuoriescono, però; quando la sua coscienza assorbe l’onestà di facciata che è chiamato a rappresentare e non può più brandirla come un affilato strumento punitivo; quando l’emozione prende il posto delle convenzioni, degli accordi di comodo; quando la confessione della sua mediocrità lo spoglia finalmente della mediocrità stessa, allora la pacatezza si trasforma in furia, in pugni battuti sul tavolo, in voce tonante e, infine, nel più intenso silenzio.

Porto sempre con me il mio binocolo da teatro, anche quando sono in prima fila. Amo studiare, le espressioni, di quando in quando, i particolari. Lo sguardo di Baldovino che si fissa negli occhi di Agata, poco prima che cali il sipario, è tanto intenso da trasmettere emozioni e, lo confesso, da far uscire una lacrima. Di emozionarmi nell’assistere ad una rappresentazione teatrale mi capita spesso, fortunatamente; di commuovermi fino alle lacrime, invece, è successo poche volte: quando ho applaudito Salvo Randone in Pensaci, Giacomino!, Rossella Falk e Valentina Cortese nella Maria Stuarda, Romolo Valli nell’Enrico IV, Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria, Gianfranco Jannuzzo ne Il Berretto a Sonagli, Mariangela Melato in Un Tram che si Chiama Desiderio e poche altre volte. Oggi aggiungo Geppy Gleijeses alla lista.

Il Piacere dell’Onestà è un’opera a protagonista assoluto, ma non si commetta l’errore di togliere importanza a chi lo circonda e lo sostiene in questo viaggio nell’anima. Tutti i ruoli sono difficilissimi e, in questo caso, perfettamente interpretati.

Vanessa Gravina è incantevole. Me l’aspettavo, ovviamente, perché è un’attrice che si è misurata  magistralmente con testi di Strindberg, Pirandello e Shakespeare. Il suo primo ingresso in scena è tumultuoso: è scalza, discinta, eppure sembra l’ingresso di una regina. Riempie il palcoscenico con le sue movenze, con la sua espressività verbale intensa. Non è un caso che musica e prosa abbiano molti vocaboli in comune: pause, tempi, ritmo, modulazione, tono … L’attore, al pari del musicista, crea sinfonia con le parole e con le azioni, trasformandole in fatti. Lei è una donna disperata, che rifiuta il giogo del perbenismo a tutti i costi, ma è anche una donna in gabbia: sa che non può allontanarsi, non può uscirne, non può ribellarsi. Chiude più volte la sua vestaglia nel parlare, un gesto che nel linguaggio non verbale implica autoprotezione, difesa del corpo, quel corpo che è causa del suo stato, ma anche fonte di un più grande amore da tutelare oltre ogni falso perbenismo altrui. Vanessa Gravina entra in Agata, soffre con essa, si muove come si muoverebbe una donna incinta, accusata d’aver perso la rispettabilità da coloro che ritengono un figlio, suo figlio, una vergogna da correggere. Dopo l’iniziale ribellione, subentra la rassegnazione e, lentamente, il cambiamento, la diversa lettura degli altri e di se stessa, la capacità di valutare le persone non per quello che appaiono, ma per quello che sono.

Il rapporto tra il recitato di Agata e di Baldovino, nel dipanarsi della storia, è costruito su quello che, rubando il termine alla retorica, potremmo definire un hýsteron próteron: un’inversione temporale nella successione delle movenze. Lei è esagitata, all’inizio, perché, lasciando liberi i propri sentimenti e risentimenti, lotta contro una realtà inaccettabile, mentre Baldovino si trincera dietro il suo pacato filosofeggiare; diventa pacata sul finire, quando Baldovino, preda di sentimenti ed emozioni è in lotta con se stesso e tira pugni sul tavolo. In mezzo c’è la presa di coscienza di entrambi.

Bravissimi anche Leandro Amato (Fabio), doppiatore ed attore di talento, che vedremo a breve nell’Elena di Euripide accanto alla Gravina; Maximilian Nisi (Maurizio), con un passato teatrale di pregio, iniziato, a soli 23 anni, con il Faust di Goethe diretto da Giorgio Strehler; Tatiana Winteler (Maddalena, la madre di Agata)  brava e versatile attrice che si è cimentata con i testi più impegnativi, da Pirandello a Strindberg; da Marivaux ad Ibsen, Rostand, Plauto, De Filippo, Faydeau, facendo a lungo compagnia con Giorgio Albertazzi; Giancarlo Condé (il parroco di S. Marta) che tutti abbiamo applaudito come Fenio Rufo nel Nerone di Sylos Labini; e Brunella De Feudis (la cameriera) giovane attrice e regista, recentemente impegnata in Dionisiaca.

La coralità di tutte le bravure che si incontrano sul palcoscenico, però, la loro presenza scenica, va oltre l’attore, lo dico sempre: compete al regista. E non ha certo bisogno di presentazioni Liliana Cavani, oggi coadiuvata dall’assistente Marina Bianchi, ben nota ad una melomane come me, poiché, oltre ad una collaborazione ventennale con la Cavani, ha curato regie di gran pregio di molte opere liriche. Prolifica regista cinematografica, Liliana Cavani ha firmato capolavori come Francesco. Anche il teatro l’ha vista impegnata, sia in opere liriche indimenticabili, sia, di recente, nella Filomena Marturano, sempre con Gleijeses.

Il realismo della Cavani ben si sposa con questa pièce priandelliana, che necessita crudezza, quando utile a far cadere maschere. Perfetto il movimento in scena così come l’immobilità che, a volte, cattura i personaggi, quasi fossero prigionieri di un quadro, di una fotografia tesa a sottolineare il momento, esaltando la mimica facciale. Anche la scelta di non chiudere il sipario nel cambio scena è felice e coglie l’essenza del personaggio pirandelliano, che è maschera, è attore, è uomo e, dunque, rappresenta ma contribuisce anche ad allestire la rappresentazione. Pensiamo ai Sei Personaggi in Cerca d’Autore.

Pochi i tagli al testo e grande il rispetto mostrato nel seguire le rigide norme di scena di Pirandello.

Nel complesso, Il Piacere dell’Onestà, ora al Quirino, è un’opera da vedere e rivedere più volte, per cercare i particolari sfuggiti ed assaporarne di nuovi. Consiglio a tutti di farlo.

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