Soltanto lo spirito di servizio

Giovanni-FalconeSi muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”

Sono sempre stato convinto che la grandezza di Giovanni Falcone è qualcosa che va ogni oltre logica umana. Dopo ventiquattro anni dalla sua morte, le sue parole sono più che attuali, le sue azioni prese sono ancora necessarie per il Paese. Vestito di un ruolo carico di responsabilità civile e morale, Giovanni Falcone entrò in magistratura nel 1964, ed a soli 26 anni, divenne pretore a Lentini. A poco a poco, nacque in lui la passione per il diritto penale. Nell’aprile del 1969 la malattia del padre – un tumore all’intestino che lo avrebbe poi portato alla morte nel 1976 – lo toccò profondamente. In quegli anni Giovanni Falcone stava mutando profondamente, a cambiarlo non fu solo la mancanza del riferimento paterno ma intervennero anche fattori esterni. Cominciò ad abbracciare i principi del comunismo sociale di Enrico Berlinguer in occasione delle elezioni politiche italiane del 1976, osservando che, da profondo amante della Giustizia qual era, il problema era combattere le disparità sociali e nel comunismo intravedeva quindi la possibilità di appianare le sperequazioni, senza lasciarsi mai influenzare dalle idee politiche, distinguendo le idee politiche ed il suo lavoro.

Nel settembre del 1979, nonostante le preoccupazioni familiari, Falcone accettò l’offerta che da tanto tempo Rocco Chinnici gli proponeva e passò così all’Ufficio istruzione della sezione penale, che sotto, appunto, la guida di Chinnici divenne un esempio innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino, amico di infanzia di Falcone, e collega fedele fino alla fine. Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie, ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici e avere un quadro complessivo del fenomeno.

Il progetto del cosiddetto “pool antimafia” nacque dall’idea di Rocco Chinnici, poi sviluppato da Antonino Caponnetto che, nel marzo 1984, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta formarono il cosiddetto “pool antimafia” affinché coordinassero le indagini sfruttando l’esperienza maturata e quello sguardo d’insieme sul fenomeno mafioso iniziato da Falcone. Obiettivo era quello di restituire la città ai palermitani e la Sicilia ai siciliani onesti, ma gli sviluppi sociali e civili andavano di gran lunga oltre la Sicilia. Uno sguardo di insieme, un esperimento nuovo per comprendere contestualmente tutti i processi di mafia mai fatto fino a quel momento. Ma una vera e propria svolta epocale alla lotta a cosa nostra sarebbe stata impressa con l’arresto di Tommaso Buscetta, il quale, dopo una drammatica sequenza di eventi, decise di collaborare con la giustizia italiana. Il suo interrogatorio, cominciato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro del nucleo operativo della criminalpol, si rivelerà determinante per la conoscenza non solo di determinati fatti, ma specialmente della struttura e delle chiavi di lettura dell’organizzazione definita cosa nostra.

Cosa nostra cominciò ad aver paura, cominciò a capire che qualcuno stava cominciando seriamente a battersi contro quel sistema, uccidendo il commissario Giuseppe Montana e il poliziotto Ninni Cassarà nell’estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e di Paolo Borsellino. Si cominciò a temere per l’incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell’Asinara; per tale periodo il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed un indennizzo per il soggiorno trascorso, che pare ridicolo ed assurdo.

Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così a costituire il primo grande processo contro la mafia in Italia; passato alla storia come il maxiprocesso di Palermo che iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 16 dicembre 1987. La sentenza inflisse 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia.

Nel settembre 1987, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva.

La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne interpretata come una possibile rottura dell’azione investigativa, inoltre rese Falcone un bersaglio molto più facile per la mafia, perché la sua sconfitta aveva dimostrato che effettivamente non era stimato come si credeva; Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l’allarme a mezzo stampa, rischiando conseguenze disciplinari; esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto.

Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso, riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. Cosa nostra intanto assassinò l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato le pressioni subite da parte di Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l’unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone.

Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, e Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l’ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un’importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.

Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all’interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell’intervista concessa a Marcelle Padovani per Cose di Cosa Nostra, Falcone attesta la sua stessa profezia: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”

È stato lasciato solo Giovanni, ma non da Francesca Morvillo, che la sposò nel maggio 1986 con una riservata cerimonia civile. Una donna, magistrato anche Lei, che ha saputo condividere con Lui, la passione per la giustizia. Giovanni sapeva di aver a suo fianco una persona così importante che avrebbe condiviso con Lui qualsiasi scelta.

La data la conosciamo tutti, il 23 Maggio 1992.Il jet di servizio partito dall’aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva all’aeroporto di Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada:[29][31] la prima auto, la Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo; la seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie Francesca.

Una violenza assurda che sconvolse l’Italia per bene, onesta che amava Falcone, avviando un processo di perdita alla lotta alla Mafia. Pochi mesi dopo, 19 Luglio 1992, Paolo Borsellino verrà ucciso, con la stessa violenza sotto la casa della madre.

È tutto finito”, cosi commentò Antonino Caponnetto la tragedia ad un telecronista.

Due giorni dopo, il 25 maggio mentre a Roma viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si svolgono i funerali delle vittime ai quali partecipa l’intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono duramente contestati dalla cittadinanza; e le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della giovanissima Rosaria, vedova dell’agente Schifani “io vi perdono, ma voi vi dovete mettere in ginocchio“, susciteranno particolare emozione nell’opinione pubblica, e verranno ricordate per sempre.

«Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. […] Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito».

Questo quanto sostenuto dal magistrato Ilda Boccassini, confermerà le critiche in un’intervista a La Repubblica del maggio 2002, in occasione dell’affissione di targa in memoria di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, criticando questo come finti onori postumi.

La politica non ha paura perché non ha lo spirito di servizio. Io faccio ancora il tifo per tutti i Giovanni, per coloro che credono che oltre ogni fede, ogni religione, sono esistite ed esistono ancora, il magistrato Nino Di Matteo ne è esempio, uomini e donne che credono nel rispetto della propria persona e dell’altro, che operano nel lavoro per offrire un servizio e non per mero arricchimento materiale che porta vantaggi facili e carriere politicizzate.

La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.”

Grazie Giovanni.

di Giovanni Sacchitelli

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