Leggere Reinhold Messner. Il sogno, il cammino, la vetta

walter-bonatti-il-fratello-che-non-sapevo-di-avereA volte è sufficiente chiudere gli occhi e percepire il profumo delle erbe selvatiche, dei fiori, dei frutti di bosco, dei funghi; altre volte, invece, è lo sguardo a perdersi verso picchi che giganteggiano coperti di ghiaccio, anche in piena estate, e si stagliano su cieli di un azzurro così intenso da colorare l’anima, spesso riflessi in laghi di cristallo; esistono, poi, sogni bianchi che sussurrano sotto gli sci, mentre nel bosco aleggia una diffusa idea d’inverno ed ai giorni freddi, brillanti di ghiaccio od opachi di neve, seguono lunghe sere in cui si accende il fuoco nei camini e si spargono profumi di cene, di vini, ci si racconta la vita; in ogni stagione, infine, pareti di roccia ospitano bivacchi lontani, lassù, da qualche parte, tra dirupi, ghiacci, vento, in luoghi dove risiede il pensiero di tutti, anche di chi resta a valle, partecipando con emozione, attendendo con ansia. Ecco, la montagna è tutto questo e molto di più.

La montagna è “un sentimento” scrive Reinhold Messner. Niente di più vero.

L’arte pittorica medievale in qualche modo la snatura, facendo sì che la forma si avvicini all’ideale di perfezione divina, come se a Dio fosse impossibile dimorare tra le cuspidi frastagliate, tra le pareti di roccia sconnesse. Cennino Cennini, alla fine del trecento, così scrive nel suo Libro d’Arte: “Se vuoi pigliare buona maniera di montagne e che paino naturali, togli pietre grandi che siano scogliose e non pulite”.

Nonostante i capolavori pittorici di cui quell’epoca si è comunque ammantata, voglio dissentire fermamente: i vertiginosi luoghi dei sentimenti di Messner e di chiunque ami la montagna sono la sede ideale di Dio. Lassù, tra le nubi, a toccare il cielo, non può esserci che Lui.

Eppure quanta paura hanno sempre suscitato queste cime maestose, queste “cattedrali della terra, con i loro portali di roccia, i mosaici di nubi, i cori dei torrenti, gli altari di neve, le volte di porpora scintillanti di stelle” come scrive Ruskin!

Ancora nel Settecento il Monte Bianco veniva chiamato Monte Maledetto, perché si riteneva che tra i suoi ghiacci San Bernardo avesse imprigionato diavoli, esseri infernali responsabili delle sparizioni dei viandanti.

Magia e mistero: è anche questo il linguaggio della montagna. Villaggi costruiti nell’oro, nell’argento e tempestati di gemme si immaginano da sempre nascosti dalle rocce, come nelle montagne che circondano il WeiBsee, in Austria, un incanto turchese a 2.425 metri, su cui aleggia lo spirito della Dama Bianca, vestita di neve, con un mantello cristallino come l’acqua ed una corona di fiori alpini. Ci sono stata: la prima tappa di un viaggio verso una sella facile da raggiungere, ma non per questo meno affascinante, a 3.108 metri, e non posso usare altro termine se non sentimento; ecco, tornano le parole di Messner.

Sono i pittori a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento i primi a sentire la montagna, a viverla nei loro pennelli: Joseph Mallord William Turner, che immortala in modo sublime Il Passo del San Gottardo, Paul Cézanne, il quale dipinge la Sainte-Victoire, su cui affaccia la finestra del suo studio, e, quindi, Alois Arnegger, il quale, nel suo Paesaggio Dolomitico con Borgo Innevato riesce a cogliere l’essenza delle Dolomiti, con i villaggi incantati che vi si stendono, i chiaroscuri imperdibili e le loro rocce dai colori unici, soprattutto sotto i raggi del sole al tramonto; ed ancora Emilio Longoni, Carlo Costantino Tagliabue, Stefano Bruzzi, ma soprattutto Giovanni Segantini, il divisionista dell’Accademia di Brera, scapestrato giovane uomo con l’arte nelle dita e, poi, maturo pittore che trova nelle montagne motivi di luce mai avuti prima, motivi di serenità mai raggiunta nelle sue tele precedenti: “certe mattine, contemplando per qualche minuto questi monti prima di prendere il pennello, mi sento spinto ad inginocchiarmi innanzi a loro come innanzi a tanti altari sotto il cielo”, afferma. Nell’ultimo suo periodo pittorico, durante il ritiro in Engadina, dipinge quei monti con esaltazione poetica e, fin quando la morte non lo coglie sullo Schafberg a soli 41 anni, continua a rifugiarsi lassù, tra le cime, in compagnia delle sue tele, dei suoi pennelli, di un cavalletto che sorregge una finestra aperta sul sentimento. Toh, ancora Messner!

Del resto è di lui che voglio parlare; di Reinhold Messner, uomo dai tanti interessi: alpinista del più alto livello, curatore del più grande progetto museale dedicato alla montagna, contraddistinto dall’inconfondibile logo che fonde il suo nome con il profilo dei monti (MMM, Messner Mountain Museum), conferenziere d’eccezione ed anche scrittore. la seconda morte di mallory

La mia estate è stata accompagnata da due dei suoi numerosi libri: La Seconda Morte di Mallory e Walter Bonatti: il Fratello che non Sapevo di Avere. E’ stata un’estate trascorsa, in parte, tra i monti della Val Venosta, dove la pioggia ha purtroppo impedito un anelato ritorno sul Cevedale e sul fronte del ghiacciaio dell’Ortles che, l’anno precedente, mi aveva impegnata per sei ore in uno dei migliori momenti montani della mia vita, pregna di autentica passione per i sentieri inerpicati e le pareti di roccia, ancorché di primo grado, avendo purtroppo disatteso, nella mia adolescenza campigliana, lo sprone di Cesare Maestri ad imparare l’arte dell’arrampicata. Sinceramente, mi è dispiaciuto molto essere stata costretta dal maltempo ad affrontare camminate meno impegnative; leggendo questi due magnifici libri di Messner, però, ho viaggiato ugualmente tra alte vette.

Entrambi sono un compendio di storia della montagna, di storia di uomini intrepidi, di cuori innamorati non del vanto, ma del rapporto con la roccia nel fronteggiare se stessi. Alcuni hanno vinto, altri hanno perso. In realtà conta solo il sogno che tutti loro hanno condiviso.

Lo stile di Messner è accattivante, vivo; segue l’onda della sua passione per la montagna, della sua profonda conoscenza d’ogni minimo anfratto, d’ogni parete, d’ogni appiglio, e della sua vastissima cultura sulla storia dell’alpinismo. Mentre leggi ti senti tra i ghiacci, percepisci il vento sibilare, l’ossigeno rarefarsi; vedi con i suoi occhi le cime lontane, vivi le notti di gelo, assapori il grido dell’ultima fatica, poco prima che i piedi tocchino l’inviolata vetta, piangi per gli eroi caduti in quella lunga marcia verso il cielo; nel primo libro riesci persino ad avvertire la presenza umbratile dello spirito di Mallory che aleggia sul suo Everest, dopo una scalata che la storia non sa ancora spiegare fino in fondo.

E’ l’8 giugno 1924. George L. Mallory ed Andrew Irvine decidono di affrontare un gigante. Non si tratta di una battaglia epica nelle terre fantastiche di Tolkien; non sono armati di frecce e lance e non hanno elfi come amici. Il gigante è alto 8.848 metri, alle misurazioni di allora, è ricoperto di ghiaccio e le loro uniche armi sono le braccia, le gambe, una piccozza, corde di canapa, una bombola di ossigeno in alluminio del peso di 20 kg, scarponi chiodati, calzettoni di lana, qualche maglione ed una giacca a due bottoni. Sono i primi ad affrontare l’Everest ed a scegliere di farlo dal versante nord-est, ossia il più arduo.

Non hanno rilievi fotografici della zona, non hanno il vantaggio di avere una via aperta. La loro forza è tutta nella determinazione, nel desiderio di esplorare, di raggiungere la vetta. Ancora oggi è discusso se vi siano riusciti. Solo nel 1999 verrà ritrovato il corpo di Mallory, perfettamente conservato dai ghiacci. E’ ai piedi del secondo gradino, l’ultimo prima di arrivare in cima. Più su, a soli 250 metri dalla vetta, viene ritrovata la piccozza di Irvine. Sono caduti prima di finire la scalata o durante la discesa? L’interrogativo è destinato a restare sospeso nell’aria gelida di quella montagna.

Sappiamo che Mallory aveva portato con sé alcune fotografie, tra le quali una della moglie, che avrebbe lasciato sulla vetta in segno di conquista. Dove viene rinvenuto il suo corpo, vengono anche rinvenuti i suoi appunti, i suoi oggetti personali, le sue foto; non quella della moglie, però. E’ sulla sommità dell’Everest?

Aveva anche una macchina fotografica, una Kodak a soffietto, ancora dispersa. Di certo in quelle foto, ammesso che, nel ritrovarla, possano ancora essere estratte immagini chiare, c’è la risposta definitiva al dilemma; un dilemma che potrebbe riscrivere un capitolo fondamentale della storia dell’alpinismo. Se Mallory avesse raggiunto la vetta nel 1924, infatti, Hillary non sarebbe più il primo uomo sull’Everest.

Messner, che ha scalato l’Everest in solitaria e senza ossigeno passando proprio dalla via intrapresa nel 1924, ripercorre, nel suo magnifico libro, le tappe di quella spedizione, intervallando il proprio racconto con il pensiero di Mallory, ossia dando voce al suo fantasma: suggestivo ed emozionante escamotage letterario in un serissimo resoconto documentale.

Altrettanto bello l’altro libro, quello su Walter Bonatti, uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi ed, a sua volta, grande scrittore, come dimostrano i suoi libri ed i suoi reportage per Epoca, effettuati nel periodo successivo all’alpinismo estremo e sui quali concentrerò la mia attenzione in un prossimo articolo.

Nasce nella bassa, nel cuore della Pianura Padana. Non respira aria di montagna dalla nascita, dunque; non sa cosa significhi arrampicarsi. Nuota nel Po, cammina, corre, ama la natura: questo sì.

Si trasferisce presto dalla zia, a Monza. Di lì comincerà ad incuriosirsi guardando i monti lontani che l’occhio gli restituisce.

A 19 anni, formatosi come ginnasta dalle promettenti qualità, inzia a scalare; a 24, nel 1954, fa già parte della spedizione sul K2 che vedrà l’Italia conquistare la vetta. Saranno Achille Compagnoni e Lino Lacedelli gli alpinisti che riusciranno nell’ambizioso progetto, ma senza Walter non ce l’avrebbero fatta. Ed è una verità, questa, che, vergognosamente, uscirà solo decenni dopo l’impresa.

La sua giovinezza, abbinata alla naturale prestanza fisica, all’autocontrollo psicologico persino in condizioni di estrema difficoltà -come proverà, un anno dopo, la sua via impossibile sul pilastro sud-ovest del Petit Dru- rende Walter uno dei più probabili protagonisti della scalata finale. Eppure in lui non c’è un briciolo di arrivismo; ha a cuore solo la spedizione, il risultato del gruppo, chiunque sia il fortunato chiamato a salire fino al cielo. Lo dimostrano i fatti.

Al campo VIII, circa 7.700 metri, Compagnoni e Lacedelli si rendono conto di quanto sia assolutamente concreto il rischio di abbandono: non hanno le bombole di ossigeno, rimaste al campo VII, ed a voler tornare indietro a prenderle, scendendo per circa 200 metri -distanza infinita, a quell’altitudine-, potrebbero non serbare le forze per portare a termine la scalata. Prima di salire in vetta, infatti, dovrebbero scendere, prendere le bombole e, subito dopo, risalire fino ad 8.100 metri, ove allestire il campo IX, l’ultima tappa prima della parte finale del loro sforzo. Un dislivello di circa 700 metri, in quelle condizioni, è davvero tanto, soprattutto perché la stanchezza e lo stress fisico li hanno già quasi sfiniti.

Rinunciando al sogno di salire l’ultimo tratto del K2, Walter si offre volontario: sarà lui, in compagnia dell’hunza Mahdi, a scendere al campo VII, prendere le bombole e risalire fino al campo IX per consegnarle a Compagnoni e Lacedelli, i quali, nel frattempo, avrebbero allestito il campo non ad 8.100 metri bensì a 7.900, in modo da renderlo raggiungibile da Walter e Mahdi prima di notte e, comunque, accessibile per il loro ristoro, qualora i due, per fatica accumulata o per mancanza di luce, non potessero ridiscendere quello stesso giorno.

Le cose, però, vanno diversamente.

Forse negli animi dei due alpinisti della cordata di punta aleggia il timore che Bonatti, con la sua gioventù e la sua eccezionale prestanza fisica, sarebbe stato più in forze di loro, l’indomani, nonostante l’immane fatica fatta; il timore che Bonatti sarebbe stato uno dei due uomini da mandare in vetta, cosa inaccettabile per l’ego di entrambi.

Fatto è che Compagnoni e Lacedelli montano il campo IX in un punto diverso da quello prestabilito: più in alto e, tra l’altro, dietro una cresta; praticamente invisibile. Quando arrivano al concordato punto di incontro, Walter e Mahdi non trovano nessuno. Sono stanchi, assetati, sta facendo buio. Con le ultime forze chiamano a gran voce il nome di Lino e di Achille. Niente. La notte scende rapidamente e li trova senza riparo, senza acqua, senza cibo a quasi ottomila metri. Walter allestisce un sedile di fortuna per lui e per il suo compagno. Lì, con la schiena poggiata sulla parete di ghiaccio e le gambe che penzolano nel vuoto dal ginocchio in giù, trascorrono la notte, sferzati dalla bufera, cercando di non dormire per non morire assiderati e battendo la piccozza sulle gambe e sulle mani per mantenere attiva la circolazione. Vedranno una torcia, ad un certo punto, e sentiranno la voce di Lacedelli. Gli chiederanno di far luce in modo da poterlo raggiungere, poiché stanno morendo di freddo, ma Lacedelli, nonostante di notte sia assolutamente impossibile farlo senza perdere la vita, dirà loro di lasciare le bombole e di tornare indietro; poi andrà via, spegnerà la torcia, sparirà in un buio nemico d’ogni speranza.

All’alba, dopo averlo aiutato a fissare i ramponi, Walter lascia che il suo compagno torni verso il campo VII, dove gli altri sono ad attenderli, ed, ormai allo stremo, dominando il tremore che lo pervade, sale ancora un poco in modo da lasciare le bombole ben visibili sulla direttiva di quella luce che li aveva lasciati soli, qualche ora prima, spegnendosi sulla loro lunga, terrificante notte. Compagnoni e Lacedelli sapranno trovarle e con esse affronteranno vittoriosamente la cima.

Tornato al campo VII le prime parole di Walter saranno per il suo compagno: è tornato? In realtà, pur con qualche congelamento, l’hunza è vivo; è vivo grazie a lui che lo ha tenuto sveglio, che lo ha abbracciato tutta la notte, cercando di mantenere un briciolo di calore nei loro corpi, che gli ha impedito di scendere al buio incontro a morte sicura, o di lanciarsi, alle prime luci dell’alba, verso la via del ritorno senza neanche i ramponi, seguendo il folle richiamo della mente, abbacinata dalla rarefazione dell’ossigeno.

Di questa vicenda, di questo tentato omicidio, come lo definisce la mia mente di avvocato penalista, non si parlerà per lungo tempo e solo nel 1994, quarant’anni dopo, Lacedelli finalmente ammetterà in parte quanto avvenuto, confermando d’aver spostato deliberatamente il campo IX su insistenza di Compagnoni.

Messner, a sua volta lungamente calunniato in occasione della conquista del Nanga Parabat, dove perse la vita suo fratello Günther, ben conosce l’invidia e la meschinità che a volte albergano nel cuore degli uomini, anche di coloro che, per coraggio e temerarietà, dovrebbero assomigliare ad autentici eroi, e, dunque, descrive con grande pathos la triste vicenda del K2.

Entrambi i libri sono talmente ricchi di descrizioni e profonda psicologia da trasportare il lettore sulle pareti impervie di montagne lontane, attraverso la via del coraggio, della conquista, della verità.

Le montagne “suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è sublime” diceva Giovanni Paolo II, il papa santo, montanaro per vocazione.

Ebbene, è proprio questo ciò che accade leggendo i libri di Messner. Ne ha scritti molti, uno più bello dell’altro; volumi di cui tornerò a scrivere, perché non si possono racchiudere tutti in un solo articolo, ma una cosa li accomuna e può, dunque, essere indicata sin d’ora come l’icona delle sue opere: leggerlo significa conquistare un pezzo delle montagne che descrive ed in cui ha riposto

cuore ed anima. Ogni lettore prova emozioni diverse e parimenti intense, ma tutti, grazie a lui, raggiungono il sublime.

di Raffaella Bonsignori

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