
«La verità vi farà liberi» — così si legge nel Vangelo secondo Giovanni (8,32), dove il Cristo, rivolgendosi ai Giudei che avevano creduto in lui, proclama che solo dimorando nella sua parola si potrà accedere alla verità, e che questa, a sua volta, genererà libertà.
Tra le affermazioni più luminose e spiazzanti dell’intera tradizione cristiana, essa racchiude una promessa e, al tempo stesso, una vertigine. Poiché se è vero che la verità libera, è altrettanto ineludibile che essa disvela, espone, denuda — e proprio per questo espone al rischio, mette a nudo le finzioni, dissolve le maschere, e lascia l’essere umano senza più difese dinanzi a ciò che è
La verità come nudo apparire
In greco antico, alétheia — verità — è il dis-velamento, ciò che viene tolto da sotto il velo (léthé è l’oblio, la dimenticanza). Dire la verità, allora, è riportare alla luce ciò che era nascosto, rimosso, celato. La sincerità dunque non è solo un enunciato corretto, ma una rivelazione ontologica: essa mette a nudo, e il nudo fa paura. È per questo che gli esseri umani indossano maschere. Non solo per ingannare l’altro, ma anche — e forse soprattutto — per proteggere se stessi.
Nietzsche, nella sua Genealogia della morale, scriveva che «le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che lo sono», ponendo l’accento sulla costruzione culturale e prospettica di ogni presunta verità assoluta. Tuttavia, anche nel suo scetticismo, il filosofo tedesco riconosceva il potere devastante della verità: essa è una forza dionisiaca, non una placida certezza. Essere trasparenti, soprattutto con se stessi, è un atto tragico. E cosa comporta invece, indossare una maschera?
La maschera come tutela
Molti filosofi e scrittori, da Eraclito a Pirandello, hanno riflettuto sul ruolo della maschera. Non come inganno, ma come mediazione. Essa è spesso necessaria. Protegge il viso, che è il luogo sacro della vulnerabilità. Levinas, ad esempio, ci insegna che il volto dell’altro ci chiama alla responsabilità: ma il nostro stesso volto ci espone, ci consegna al giudizio altrui.
Quando raccontiamo la verità su di noi — sulle nostre ferite, paure, desideri — ci esponiamo a un pericolo reale: quello dell’incomprensione, dello scherno, del rifiuto. Ecco perché spesso scegliamo il silenzio, o la mezza verità. Non per viltà, ma per sopravvivenza.
Menzogna e necessità: l’etica del limite
Dire tutto, “pane al pane, vino al vino”, sempre e comunque, è possibile? Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, diceva: «Siate veri, sempre, ma con carità». Un invito a non usare la verità come un’arma contundente, ma come una carezza ardente. Non è tanto la schiettezza a fare male, quanto il modo in cui la si porge.
Ad ogni modo, ci sono momenti storici in cui la menzogna ha salvato vite umane. Durante la Shoah, molte famiglie nascosero gli ebrei, rischiando la vita. Mentirono, falsificarono documenti, ingannarono le autorità. Quella menzogna fu un atto di verità più profondo della verità stessa: fu figlia della compassione, della giustizia, della dignità dell’altro.
Anche Kierkegaard — che pure fu ossessionato dalla verità dell’esistenza — scriveva che essa «va comunicata esistenzialmente», cioè in base alla situazione, alla maturità dell’altro, alla capacità di accoglierla. Altrimenti, diventa un assoluto che schiaccia.
Il prezzo della sincerità
Dire la verità richiede coraggio. Non solo perché si rischia di perdere affetti, opportunità, sicurezza, ma perché essa ci rende vulnerabili. È una resa. È un atto di consegna. È, in un certo senso, una nudità morale.
Eppure, è solo quando attraversiamo questo fuoco che possiamo davvero liberarci. Non esiste libertà nella menzogna: ogni bugia crea una rete di dipendenze, una prigione sottile fatta di continue giustificazioni. Mentire — anche per proteggersi — è sempre un patto col potere: quello altrui o il nostro stesso.
L’arte del discernimento
Non si tratta allora di opporre verità e menzogna come bene e male. Si tratta di riconoscere che la sincerità è una forza potente e ambivalente. È come la luce: può illuminare o accecare. Occorre sapienza per maneggiarla.
Il discernimento è la virtù dei forti. È saper riconoscere quando va detta, come va detta, a chi va detta. E quando, invece, il silenzio o persino la finzione servono a custodire un bene più alto. Non c’è verità senza responsabilità. Non c’è verità senza compassione.
Una conquista interiore
Eppure, in ultima analisi, la verità ci rende liberi. Ma non perché ci garantisca successo, approvazione o immunità. Ci rende liberi perché ci allinea con la nostra essenza più profonda. Perché solo in essa, noi siamo. E questo essere, per quanto fragile, è invincibile.
Come scriveva Simone Weil, la verità «non è un oggetto da possedere, ma una presenza da amare». E amarla significa anche accettare di perderla, di non possederla mai completamente. Ma è in questa tensione che abitiamo la nostra dignità.
La verità ci rende liberi. Ma solo se abbiamo il coraggio di perderci in essa.
Image by Gianni Crestani from Pixabay
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