Hope Diamond: la storia del diamante maledetto

Fin dagli albori si pensava che i diamanti fossero capaci di curare e proteggere dagli influssi negativi tant’è che oggi sono donati come augurio di amore eterno e fedeltà duratura.

Oltre a essere una forma d’investimento in costante crescita, sono indubbiamente un accessorio elegante e intramontabile. Basti ricordare la celebre Marilyn Monroe che, nel musical degli anni ’50 Gli uomini preferiscono le bionde, cantava “Diamonds are a girl’s best friend” avvolta nel suo iconico abito rosa shocking.

Eppure, come spesso accade, non c’è regola senza eccezioni; invero occorre dire che non tutti i diamanti sono benevoli e propizi anzi, da alcuni sarebbe meglio girare alla larga!

È il caso dell’Hope Diamond, una pietra stupenda dall’intenso e magnetico colore blu. 

Dall’India alla Francia, dalla Gran Bretagna all’America, il prezioso ha viaggiato attraverso i secoli accompagnato dalla fama di arrecare sciagure e sfortune ai suoi possessori.

Infatti pare che un’oscura maledizione sia celata nella sua attraente bellezza e sia pronta a colpire ancora.

Dal Re Sole alla Rivoluzione Francese

La tradizione racconta che nel XVII secolo il mercante francese Jean-Baptiste Tavernier rinvenne, nelle miniere di Kollur del sultanato di Golconda, una grande pietra triangolare (115 carati) di un blu tendente al violetto, dal cui nucleo sarebbe in seguito nato l’Hope Diamond.

In assenza di certezze, gli storici hanno ipotizzato il luogo della scoperta basandosi sugli unici indizi in circolazione: Tavernier stesso aveva scritto nel suo resoconto Six Voyages, pubblicato nel 1676, di essersi recato più volte in India che all’epoca era l’unica fonte estrattiva di diamanti.

Il mercante era conosciuto nei salotti non solo per il commercio di beni di lusso ma anche per la bravura nello sfruttare i differenti tassi di cambio negli investimenti. Senza dubbio era abile e ambizioso.

Non per niente, tornato a Parigi, riuscì subito ad assicurarsi un buon affare vendendo il prezioso carico al Re Sole in persona che, come parte del pagamento, pare gli conferì pure un brevetto di nobiltà.

In effetti, Luigi XIV amava sfoggiare gioielli rari e luminosi, specie nella sua sfarzosa residenza di Versailles, tant’è che decise di acquistare la pietra per la sua singolare bellezza nonostante la moda europea ritenesse meno pregiati i diamanti colorati.

Per far risaltare ulteriormente brillantezza e simmetria, ordinò poi di tagliare il pezzo così, dopo due anni di lavoro, il gioielliere di corte Jean Pitau ripresentò una pietra triangolare di circa 69 carati, incastonata in oro su un perno da cravatta, che gli inventari reali catalogarono come diamant bleu de la Couronne de France, per le cronache semplicemente Bleu de France.

Il nuovo alloggiamento aveva il pregio di catturare la luce riflettendola in toni grigio-bluastri per di più il cuore del diamante conteneva l’emblema di Luigi, il Sole, con sette sfaccettature a indicare il suo ruolo divino. Il sovrano indossò mai il gioiello? Difficile dirlo, per alcuni si limitò a tenerlo in bella mostra per gli ospiti più illustri. 

In ogni caso, quando morì nel 1715 dopo anni di malattie e sofferenze fisiche, il Blu di Francia passò nelle mani del pronipote Luigi XV che lo fece collocare in un elaborato pendente destinato all’ordine cavalleresco del Toson d’Oro. Tale insegna cerimoniale, forgiata da Pierre-André Jacquemin, era assemblata con una serie di altri preziosi sui quali spiccava, fra l’altro, lo spinello rosso a forma di dragone del Côte de Bretagne (107 carati).

Il diamante, oramai indirizzato ai soli eventi istituzionali dell’ordine, cadde in disuso e, nel momento in cui il re morì di vaiolo, fu ereditato da Luigi XVI e la moglie Maria Antonietta.

Com’è noto, il loro regno fu segnato dai tumulti della Rivoluzione francese; anni tempestosi che portarono alla cattura infine alla decapitazione dei due sovrani. Che ci sia stato lo zampino della maledizione? Fatto sta che quelle vicende sancirono un momento di svolta nella storia del Bleu de France.

Invero, dopo che Luigi XVI e la famiglia furono posti sotto sorveglianza, i gioielli della corona  – incluso il diamante blu –  furono confiscati e trasferiti nel magazzino reale al Garde Meuble dove, per decisione del governo rivoluzionario, erano esposti al pubblico una volta alla settimana.

Perlomeno fino al 1792 quando un gruppo di ladri s’introdusse da una finestra, negligentemente lasciata aperta al primo piano, con l’intento di saccheggiare l’inestimabile tesoro di Francia.

Le scorribande andarono avanti per cinque notti prima che qualcuno se ne accorgesse dando l’allarme.

Il danno fu considerevole: solo alcuni pezzi furono in seguito recuperati ma del diamante nessuna traccia, sembrava scomparso nel nulla!

La nascita dell’Hope Diamond

Già all’epoca del furto, circolavano voci che descrivevano l’episodio come il tassello di un piano ben più ampio. Alcune teorie ritengono, infatti, che il colpo al Garde-Meuble fu architettato da Georges Jacques Danton con il chiaro scopo di usare la refurtiva per indurre il duca di Brunswick al ritiro delle truppe dalla Francia.

Se fosse vero, si spiegherebbe la ricomparsa del Bleu de France nel Regno Unito atteso che Carolina, figlia del duca, era la moglie del principe reggente Giorgio.

Ad ogni modo, la pietra fu di certo contrabbandata a Londra e tagliata in due porzioni tant’è che nel 1812 il gioielliere John Francillon descrisse un diamante blu di 45,5 carati appartenente al mercante Daniel Eliason.

Oggi, grazie ad un accurato studio del 2005, abbiamo la conferma che si trattava di una parte del prezioso rubato che, non a caso, rispuntò esattamente alla scadenza dei termini di prescrizione per i crimini della Rivoluzione. Nessuno però, nell’ottocento, fece gli opportuni collegamenti con il tesoro francese.

Fatto sta che, qualche anno più tardi, il diamante risultava incastonato in un medaglione, circondato da diamanti incolori più piccoli, arricchito da un pendente a perla e compariva nella collezione del banchiere Henry Philip Hope dal quale prese l’attuale nome.

Alla morte del proprietario, i suoi tre nipoti si contesero il patrimonio in tribunale per dieci lunghi anni fino a quando Thomas riuscì ad aggiudicarsi l’Hope Diamond decidendo, fra l’altro, di esibirlo nella Grande Esposizione di Londra organizzata dal principe Alberto nel 1851. 

L’eredità passò poi alla moglie Anne Adele che, preoccupata per i vizi costosi del genero, scelse di escludere l’unica figlia affidando tutti gli averi direttamente al nipote Francis che, raggiunta la maggiore età, assunse in aggiunta il cognome Hope come da condizioni testamentarie.

Nonostante le belle speranze della nonna, il ragazzo iniziò a condurre una vita di sperperi al di sopra dei propri mezzi e la situazione peggiorò non appena sposò l’affascinante attrice americana May Yohé.

Quando Lord Francis giunse sull’orlo del fallimento, chiese al tribunale il permesso di vendere alcuni dei beni ereditari dei quali non poteva disporre liberamente giacché aveva solo un interesse a vita sul lascito. Dopo vari contenziosi, ottenne infine il consenso e alienò la collezione d’arte prima, l’Hope Diamond poi.

Intanto le sciagure si erano abbattute anche sulla sua sfera privata tant’è che la moglie era fuggita con un altro uomo. Dopo il divorzio, May Yohé cercò di cavalcare l’onda della maledizione accusando il diamante di ogni sua sventura eppure Francis negò sempre di averle prestato la pietra. Secondo alcuni, l’intento della donna era ottenere fama e soldi infatti aiutò a scrivere un film e un libro presentandosi addirittura sul palco con una riproduzione dell’Hope Diamond.

Nel frattempo il vero diamante era già approdato nel Nuovo Mondo.

Pierre Cartier e la maledizione del diamante

Fu Simon Frankel, della Joseph Frankel’s Sons & Co. di New York, a portare l’Hope Diamond oltre l’Atlantico per venderlo alla clientela americana di inizio Novecento.

Erano gli anni della crisi finanziaria di Knickerbocker che portò il mercato a subire un rapido crollo al punto che la stessa compagnia di Frankel si ritrovò sul filo della bancarotta.

La pietra rimase a lungo chiusa nella cassetta di sicurezza fino a quando il collezionista turco Selim Habib la acquistò nel 1908 ma, ironia della sorte, già l’anno successivo fu costretto a includerla nell’asta per saldare i suoi debiti.

Il mercante parigino Rosenau si aggiudicò l’Hope Diamond che rivendette subito a Pierre Cartier della rinomata casa di gioielli francese fondata nel 1847.

A quei tempi, cominciavano già a circolare i primi articoli che trattavano della maledizione; il The New York Times elencò, spesso erroneamente, le disgrazie di tutti coloro che avevano toccato il diamante arrivando a dichiarare che persino il proprietario più recente, Salim Habib, era rimasto vittima di un naufragio quando in realtà si trattava di un caso di omonimia.

Ad ogni modo Cartier, commerciante esperto e capace, pensò di usare la storia a suo vantaggio così bussò alla porta dei coniugi McLean, entrambi eredi di grandi fortune: Edward era il rampollo del The Washington Post mentre Evelyn era l’unica figlia di un minatore arricchitosi grazie alla scoperta di un’enorme miniera d’oro.

Il famoso gioielliere cercò di creare intorno all’Hope Diamond un alone di mistero e suspense raccontando persino che Tavernier era stato sbranato dai cani poiché aveva rubato la pietra da un idolo sacro scatenando la maledizione. Niente di più falso, lo scopritore del diamante era invece morto a 84 anni per cause naturali.

Cartier enfatizzò ogni vicenda inventando di sana pianta ove possibile; forse si ispirò anche al romanzo di Wilkie Collins intitolato La pietra di Luna per creare una trama all’Indiana Jones.

Evelyn, pur affascinata dalla narrazione, in un primo momento rifiutò l’offerta perché non convinta dal tipo di montatura così il commerciante, deciso a non arrendersi, lavorò per dare un nuovo alloggiamento al prezioso poi si ripresentò dai McLean; l’Hope Diamond appariva questa volta racchiuso da sedici diamanti incolori nella duplice funzione di ornamento per la testa o collana di diamanti, proprio com’è visibile oggi. 

L’accordo fu subito concluso e il gioiello passò ai nuovi proprietari che lo sfoggiarono in molte occasioni come simbolo del loro status. 

Forse per caso, da quel momento capitarono una serie di sventure inclusa la separazione della coppia per le ripetute infedeltà di Edward. In particolare, l’uomo iniziò a condurre una vita di eccessi alcolici e spese smodate che lo portarono a vendere il The Washington Post e a terminare i suoi giorni in una clinica psichiatrica inoltre, dei quattro figli, il maggiore finì ucciso da un’auto all’età di nove anni mentre un’altra perì giovane per abuso di sonniferi. 

Alla sua morte, Evelyn lasciò l’Hope Diamond e tutte le proprietà ai nipoti stabilendo una custodia fiduciaria fino ai venticinque anni dell’erede più piccolo in modo da evitare ogni vendita per i due decenni successivi.

Malgrado ciò, l’intera collezione McLean fu ceduta per risanare i debiti e finì nelle mani del gioielliere Harry Winston che inserì il diamante nella sua Court of Jewels, una mostra itinerante finalizzata alla raccolta di fondi benefici oltre alla conoscenza delle gemme da parte del grande pubblico.

Il nuovo proprietario credeva fermamente nella necessità per gli Stati Uniti di una collezione nazionale di pietre così, nel 1958, mosso da uno spirito patriottico, decise di donare il diamante blu alla Smithsonian Institution con la speranza di sollecitare future elargizioni e procedette all’invio per raccomandata, in una semplice scatola marrone assicurata per un milione di dollari.

Neanche ad immaginarlo, il postino che effettuò la consegna fu colpito da un trauma alla gamba, la sua casa prese fuoco e la moglie morì poco dopo: come prevedibile, diverse voci si sollevarono contro la recente acquisizione presagendo danni per l’intero paese

Nonostante le proteste, l’Hope Diamond fu esposto all’interno della National Gem and Mineral Collection del Museo Nazionale di Storia Naturale dove oggi è custodito su un piedistallo rotante in una sala dedicata al suo benefattore.

Negli anni, il diamante è stato rimosso poche volte dal suo letto: nel 1962 è stato prestato al museo del Louvre per la mostra “Dieci secoli di gioielli francesi” che ha sancito una reunion con il Côte de Bretagne di Luigi XV; nel 1965 è volato in Sud Africa per la fiera del Rand Easter Show; nel 1982 ha partecipato ad un ricevimento al Metropolitan Museum of Art promosso dal figlio di Winston che nel 1996 ha anche effettuato il restauro del gioiello. 

Nel 2010, per celebrare il cinquantennio allo Smithsonian, l’Hope Diamond è stato poi mostrato per la prima volta senza montatura e, prima di tornare al Cartier originale, è stato esposto per oltre un anno in una collana temporanea progettata dalla società Harry Winston.

Nel tempo, visitatori di tutto il mondo sono giunti per ammirare il famoso diamante e, chissà, scorgere qualche spiraglio della sua aura misteriosa ma, da quel lontano 1958, la maledizione sembra addormentata.

Sarà davvero così?

Foto di PublicDomainPictures da Pixabay

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