Fino a toccare il cielo – Storia dell’Alpinismo e degli uomini che hanno sfidato le montagne

Storie di conquiste, di drammi e di eroi (Prima parte)

La Montagna da sempre emana un fascino particolare e attira da secoli frotte di esploratori e avventurieri. La Montagna è il confine, la fine, la barriera, la protezione di un paese, di un continente, della cultura di un popolo.

Scrittori, poeti e narratori ne hanno magnificato nei millenni la bellezza, le altezze, la maestosità, i drammi. La Montagna è il luogo più vicino al cielo, all’insondabile, ai nostri sogni e ai nostri Dii.

La montagna è anche tragedie come l’ultima accaduta agli alpinisti Daniele Nardi e Tom Ballard ai quali dedichiamo questa breve disanima che in quattro parti ne racconterà l’aspetto estremo, avventuroso, sportivo e “ludico”. L’approccio utilizzato dagli umani nel tempo per vincerla e domarla ma anche per amarla e considerarla parte vitale del nostro mondo reale e delle nostre fantasie.

A Daniele e a Tom

Al di là delle nuvole

Da molti anni le cronache ci hanno abituato a notizie drammatiche d’incidenti in montagna con esiti mortali. Tragedie spesso evitabili se ci fosse maggiore attenzione e più perizia da parte di coloro che si cimentano in traversate e arrampicate sui monti e se, come dicono gli alpinisti più esperti, le montagne non fossero viste come un luna park dove possono salire tutti senza allenamenti specifici e conoscenze di base.

Certo, poi ci sono le fatalità che in un ambiente ostile come quello montano, soprattutto in certi periodi dell’anno non sono prevedibili, ma è ovvio che l’aumento degli incidenti è anche strettamente correlato all’aumento di coloro che per sport o per passione praticano alpinismo o l’arrampicata, che negli  ultimi anni si sono moltiplicati.

Le tragedie 

Le grandi montagne, sono da sempre teatro di terribili tragedie, nonostante le attrezzature e le tecniche per le scalate oggi siano migliorate e più efficienti.  

Uno dei primi grandi incidenti che causò la morte di cinque scalatori avvenne il 28 Agosto del 1905 durante l’ascesa del Kangchenjunga, la terza montagna più alta del mondo.

All’Everest invece, oltre all’altezza, spetta anche il triste primato del numero di vittime durante le scalate: più di 250 comprese tra gli anni venti e i giorni nostri; vittime che nella maggioranza dei casi  sono ancora lì, sepolte tra i ghiacci, precipitate nei crepacci o adagiate e ancora visibili lungo i pendii con i loro corpi scheletriti e scoloriti. Il più famoso dei quali è quello di Tsewang Paljor, un alpinista indiano morto a 28 anni nella tempesta del 1996, raccontata dal film Everest e conosciuto come “Green Boots” per gli stivali verdi che indossava al momento dell’incidente, che  in certi momenti , soprattutto con lo scioglimento delle nevi, sono ancora visibili agli alpinisti che percorrono quei pendii.    

Statisticamente,  le montagne più pericolose del mondo, in base al rapporto scalate/incidenti , risultano essere il K2 e l’Annapurna della catena dell’Himalaya, ma ognuna delle grandi montagne in tutti i continenti, ha richiesto e  annovera tra le sue nevi, i ghiacciai, i dirupi e i crepacci, decine di vite spezzate.

La storia dell’Alpinismo  

E’ universalmente riconosciuto ormai, che l’alpinismo moderno nasce nel 1786 con la conquista del Monte Bianco da parte dei francesi Balmat e Paccard.

Non che prima altri uomini non si fossero spinti fino a quelle altitudini…anzi. Le scoperte di questi ultimi anni (l’uomo di Simulaun e l’uomo del Mondevale) ci dicono che già nella preistoria i nostri antenati  si spostavano ad altezze considerevoli per cacciare o addirittura per propiziare riti religiosi.

E’ cronaca che nel 1492 sui monti della regione francese del Vercos, Carlo VIII fece posizionare tre croci e costruire una piccola cappella. Parliamo degli antipodi dell’alpinismo che non aveva nessuna finalità scientifica o sportiva. 

L’illuminista de Saussure invece, organizzò quella spedizione del 1786 per effettuare misurazioni e studi, ma anche per una sete di scoperta che ben presto divenne la motivazione prevalente di tutti coloro che incominciarono a cimentarsi con tali imprese.    

L’Alpinismo diventa “disciplina sportiva”   

                                                                                                                                                 Nei successivi cento anni, furono conquistate molte delle più alte vette alpine tra quelle conosciute, tra le quali il Monte Rosa, il Monvisio, la Marmolada e infine il Cervinio che si arrese all’inglese Edward Whymper dopo un’aspra contesa con altre cordate di scalatori in competizione fra di loro, alcuni dei quali trovarono la morte in un tragico incidente.

E’ in quel periodo che nasceranno i primi club che saranno la base per l’alpinismo moderno e sportivo del quale francesi e italiani saranno per molti anni gli alfieri. Tuttavia, dopo la Prima Guerra Mondiale, saranno i tedeschi e gli austriaci i più strenui cultori di quello che si andava definendo come “sport”, creando scuole di arrampicata e inserendo la pratica dell’allenamento sistematico. 

Alla sfida l’Italia rispose mettendo in gioco grandi personalità del calibro di Emilio Comici e Luigi Micheluzzi solo per citarne alcuni che, insieme ai fratelli austriaci Franz e Toni Schmid e ai francesi Jacques Lagarde e Lucine Devies, completarono grandi ascensioni e portarono a termine molte imprese.

Mentre nel 1938 la cordata italiana composta da Riccardo Cassin, Ugo Tizzoni e Gino Esposito, lungo lo sperone Walker conquistò la Nord delle Grandes  Jorasses, i tedeschi Heckmair e Vorg e gli austriaci Harrer e Kasperek conquistarono l’Eiger (Oberland Bernese) che aveva mietuto numerose vittime.

L’attenzione del mondo

L’alpinismo in quegli anni aveva conquistato consensi e attenzioni “mediatiche” e i suoi frequentatori , sempre più numerosi, diventarono presto degli eroi, conosciuti e amati, fino ad essere inserito, nel 1932, nei Giochi come disciplina olimpica.

Il dopoguerra fu caratterizzato da una serie di novità tecniche che ne rivoluzionarono la pratica, come l’introduzione della suola Vibram nelle scarpe e l’evoluzione del “chiodo” da parete, che venne prodotto in varie fogge e misure, arrivando infine a quello a pressione.

E’ questo il momento delle grandi “ripetizioni” solitarie e invernali, dei grandi itinerari degli anni trenta ed è anche quello di maggior interesse da parte dei media e della stampa che, nella logica del sensazionalismo che si andava facendo strada, erano spesso più attenti alle tragedie e alle polemiche che all’informazione. 

La prime  conquiste

Il dopoguerra fu anche l’epoca delle  esplorazioni extraeuropee, riprese dopo i pioneristici tentativi del Duca degli Abruzzi ( Il ghiacciaio del Baltoro in Pakistan sui monti del Karakorum) e quelli più concreti ma ancora velleitari data l’attrezzatura, degli anni ’20 e ’30 di Mallory e Irvin sull’Everest e dei tedeschi sul Nanga Partab.     

Nel giro di pochi anni furono conquistate tutte le maggiori vette sopra gli 8000 metri, tranne eccezioni legate a motivi politici (Shisa Pangma conquistata dai cinesi nel 1964), tra le quali anche la più alta come l’Everest nel 1953 da Hillary e Tenzing e la più difficile, il K2 nel 1954 ad opera dei nostri scalatori Compagnoni, Lacedelli e….Bonatti. Che per lunghissimo tempo e fino ai giorni nostri fu tema di polemiche e recriminazioni. 

Furono spedizioni che videro un larghissimo dispendio di mezzi e con  il sistematico uso di ossigeno e corde fisse. Ci fu un grande impegno organizzativo da parte dei club nazionali e degli stessi governi e rappresentarono, con la loro organizzazione di tipo militare, un’eccezione nel panorama solitamente libertario del grande alpinismo di allora.

Tuttavia si trattò di imprese d’indubbio valore, che richiesero ai loro protagonisti immani sacrifici e un tributo di vite notevole le cui modalità rimasero le uniche considerate possibili fino agli anni ’70 del secolo appena passato, nonostante alcuni precursori come Buhl e Dimberger sul Broad Peak, avessero dimostrato la possibilità di muoversi in modo più leggero e meno impattante.

Continua…

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