Dieci domande ad Ascanio Celestini

Ascanio Celestini - " Appunti per un film sulla lotta di classe "Ascanio Celestini, regista e scrittore, è uno dei rappresentanti più importanti del nuovo teatro di narrazione. Dopo “Laika“, torna in scena con “Pueblo” una nuova rappresentazione della periferia, dei margini del mondo, dove però l’umanità e la sensibilità delle persone è più viva e percepibile.
– Chi è Ascanio Celestini?
Sono nato a Roma nel 1972. Non ho mai vissuto fuori dalla borgata nella quale sono nato e cresciuto. È andata così. Non è stata una scelta, ma nemmeno un’imposizione. Volevo fare l’antropologo, ma poi ho cominciato col teatro perché mi pareva che fosse un posto sensato nel quale portare le storie che raccoglievo.
Ho due figli incredibilmente diversi tra loro. Non l’avrei mai detto se non mi fosse capitato personalmente che le persone possono nascere e crescere e diventare da subito così tanto differenti.
Mi piace la mozzarella di bufala, Joseph Roth e il secondo movimento di Eine kleine Nachtmusik.
– Nell’era dei social media che valore riveste la satira? Ha ancora un senso?
Io ascolto storie e racconto storie. Sto in mezzo. Non penso che in un lavoro del genere ci si possa chiedere se facciamo satira o qualcosa d’altro.
Raccontare ci mette in quel mezzo, tra chi parla e chi ascolta. Io cerco solo di farlo in maniera professionale, di farlo per gli altri e non solo per me.
– Recenti fatti di cronaca ci raccontano un’Italia decisamente razzista e xenofoba. Avresti mai immaginato che saremmo arrivati a tanto?
L’Italia è un paese che migliora.
Alla fine della seconda guerra mondiale contavamo più di tremila omicidi volontari, oggi siamo più o meno a un decimo rispetto a quel numero. Diminuiscono tutti i reati, c’è l’acqua calda in quasi tutte le abitazioni e non si muore di fame.
La società viene descritta come brutta e cattiva solo da quelli che usano la paura per accaparrarsi il consenso.
Siamo circondati da gente meravigliosa che non si fa imbambolare dagli incantatori di professione. Arginare la deriva della superficialità è già molto.
– Che rapporto hai con Roma, la tua città?
Mi piace. Mi piace tutta. È sporca, maltrattata da chi ci vive e schifata da chi la amministra. Però mi piace lo stesso perché ci vivono persone prodigiose. È ancora una città antica, piene di gente che non ha niente da perdere. C’è il barbone che mi dice “lo sai chi ha inventato il tempo? Sono state le donne… perché hanno capito che il figlio gli è nato nove mesi dopo aver fatto l’amore. Quello è il tempo!”
– In questa nostra liquida società quali sono i tuoi punti fermi?
Sono sempre di meno, ma sempre più preziosi. Gianni Minà mi dice di quando ha incontrato Fidel Castro. Gli ha proposto di mostrargli le domande prima di porgliele nell’intervista, ma Fidel ha risposto “noi abbiamo fatto la rivoluzione, non abbiamo paura delle parole”.
Ecco, io faccio questo lavoro nel quale mi tocca usare le parole. Il mio punto fermo è ricordarmi di non averne paura.
– Hai avuto dei “fari” culturali?
Ernesto De Martino e Giovanna Marini.
– In “Pueblo”, l’ultima opera che hai messo in scena, racconti tante solitudini nelle periferie cittadine. Ritieni che l’individuo del terzo millennio sia sostanzialmente solo?
La solitudine è un valore. Siamo continuamente soli. Non siamo piante che infilano le radici nella terra. Non perdiamo le foglie. Siamo chiusi in un corpo nel quale è rinchiuso un cervello.
E allora vale la pena andare fieramente in fondo alla scoperta di questa solitudine.
– Sei padre di due figli: quanto è complicato esser genitori oggi?
Io faccio un lavoro che è un po’ un’opportunità, un po’ una fregatura e un po’ un alibi.
Inevitabilmente devo stare fuori casa per molti giorni. Non posso fare molto per cambiare questo tram tram. E inevitabilmente i miei figli mi vedono rientrare come un marziano ogni volta che torno a casa.
Quando anche io ero un figlio i miei genitori non mi hanno detto molto. Io cercherò di impegnarmi un po’ di più. Ma poi cosa dovremmo dire ai nostri figli? Anche le parole sono un’alibi. Più parliamo e più ci sentiamo all’altezza del nostro compito, ma invece non è così. Cerchiamo solo di non fare brutta figura.
Patrizia, la mamma di Federico Aldrovandi, in un’intervista mi dice “i figli sono la dimensione del sogno, della speranza, della gioia, del vederli… forse non dovremmo caricare i nostri figli di tutto questo, forse non dobbiamo nemmeno dirglielo”.
Per paura di non dire abbastanza finiamo per esagerare con le chiacchiere.
E te ne dico un’altra, la bella poesia scritta su Ponte Garibaldi dove è stata ammazzata Giorgiana Masi. La poesia che termina con le parole “se i fiori che abbiamo regalato / alla tua coraggiosa vita nella nostra morte / almeno diventassero ghirlande / della lotta di noi tutte donne /se… / non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita / ma la vita stessa senza aggiungere altro”.
Ti pare normale che la vita da sola non basta? Che dobbiamo sempre aggiungerci qualche cosa?
– Che cosa porti con te su un eremo?
Niente.
 – Che cosa vuoi fare da grande?
Niente.

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