Come siamo fragili

Coronavirus, monito per l’umanità 

Sono bastate poche settimane perché il mondo cambiasse. Tutto è cominciato tra il 20 e il 25 novembre 2019, in un mercato di una metropoli cinese. In un mercato dove i rivenditori non hanno frigoriferi e non ce li hanno perché non c’è corrente elettrica. Per questo gli animali in quel mercato ce li portavano vivi, per essere venduti vivi e macellati sul posto. Anche i pipistrelli. Probabilmente è stato il loro sangue ad infettare l’uomo. E’ avvenuto così il cosiddetto salto di specie del Coronavirus, l’ultimo anello della mutazione genetica che ha trasformato un virus di origine animale in un virus adatto ad essere ospitato nel corpo umano, che ha trovato in esso le condizioni per sopravvivere, replicarsi e, in alcuni casi, invadere i tessuti sani fino a impedirne la funzione e provocare la malattia. Nei casi più gravi la COVID-19, COrona VIrus Desease 2019 come l’hanno chiamata, invade i polmoni e non permette di respirare. 

Il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi hanno informato l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di aver rilevato a Wuhan, città capoluogo della provincia di Hubei, 44 casi di polmonite di causa sconosciuta, 11 con evidenti lesioni invasive in entrambi i polmoni e gravi difficoltà respiratorie. Alcuni pazienti lavoravano come venditori nel mercato del pesce della città. 70 giorni dopo, l’11 marzo 2020, il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato che COVID-19 poteva essere caratterizzata come una pandemia. Nel momento in cui scriviamo, oggi è l’8 aprile, nel mondo si sono registrati circa 1.440.000 contagi e oltre 82.000 persone sono morte.

Per ragioni ad oggi non del tutto chiare, l’Italia è stata colpita in modo particolarmente duro e attualmente è il paese che ha totalizzato il maggior numero di decessi (17.127) con 135.586 contagi registrati. La situazione è ben diversa in Germania dove, nonostante il numero dei contagi abbia superato quota centomila, i decessi sono soltanto 2.016, circa il 12% di quelli occorsi in Italia. Il prof. Christian Drosten, direttore dell’Istituto di Virologia dell’ospedale Charitè di Berlino, lo scorso 26 marzo durante una conferenza stampa presso il ministero della ricerca tedesco, ha affermato che “il motivo per cui in Germania ci sono ancora pochi decessi è la diagnostica. I dati pervenuti negli ultimi giorni permettono di affermare che ogni settimana si fanno mezzo milione di test. La Germania ha cominciato prima a fare test e per questo abbiamo potuto caratterizzare l’epidemia in anticipo rispetto ad altri paesi”.

Il prof. Christian Drosten e la ministra della ricerca Anja Karliczek

La differenza con l’Italia tuttavia è così alta da lasciare aperte molte domande. Queste riguardano certamente la diagnostica, ovvero i criteri e i tempi con cui sono stati rilevati i casi positivi, isolandoli preventivamente e impedendo in tal modo la diffusione del contagio, ma anche i trattamenti, e qui bisognerà capire se sono fondate le voci, circolate anche in Germania, che in Italia a causa della mancanza di letti di terapia intensiva muniti di ventilatori, è stata data priorità ai pazienti più giovani, lasciando molti anziani al loro destino. In Germania all’inizio dell’emergenza i letti di terapia intensiva erano 28.000, in Italia solo 5.300.
Una cosa è certa. L’Italia sta pagando un prezzo altissimo e bisognerà capire cosa, nel nostro pur celebrato sistema sanitario nazionale, non ha funzionato in particolare al Nord. In particolare nella regione più ricca e con le strutture ospedaliere migliori del paese, la Lombardia. Nel drammatico bilancio di vite perse vanno inclusi gli operatori della sanità che hanno pagato un tributo altissimo nel tentativo di salvare vite umane. I medici morti fino ad oggi sono 94, 26 gli infermieri. Molti di loro lavoravano nella provincia di Bergamo, uno dei territori in Italia più colpiti dal virus. 

La notte del 18 marzo un convoglio di camion militari ha attraversato la città di Bergamo con 65 feretri destinati ai cimiteri di Modena e Bologna, non riuscendo la città a seppellire i propri morti nel cimitero comunale. Persone morte in solitudine, senza poter ricevere una carezza dai propri cari, senza il conforto religioso di un sacerdote.  

Tutto è relativo. Affermare, come molti hanno fatto, che l’emergenza creata dal Coronavirus è la più grave dalla fine della seconda guerra mondiale ci dice quanto essa sia drammatica, a livello globale, e tuttavia la riporta a un confronto che ci consente di misurarla. La seconda guerra mondiale è stato il più grande conflitto armato della storia, durò sei anni e causò la morte di 60 milioni di persone. I numeri delle vittime del Coronavirus sono drammatici, ma ben distanti da quelle cifre.

Tutto è relativo. In un pianeta segnato da enormi differenze sociali, dove a tutte le latitudini la forbice tra poveri e ricchi diventa ogni anno sempre più ampia, dove la globalizzazione sempre più chiaramente mostra i suoi lati peggiori e, complice la tecnologia, ha portato un microscopico virus a fare in poche settimane il giro del mondo, dove il cambiamento climatico è diventato la prova provata dell’insostenibilità del modello di sviluppo che l’umanità ha assunto come base dell’economia capitalistica globale, il Coronavirus ci ha resi tutti più uguali, tutti più insicuri, tutti più fragili. 

Riccardo Padovani, amico novantatreenne di Milano, nella sua pagina Facebook con la quale mantiene i contatti con il mondo, ha scritto: “… Nella mia quasi secolare esistenza non ho mai visto niente di simile, neppure nei tragici anni della seconda guerra mondiale. Mai come ora ho percepito il senso della nostra fragilità, l’assoluta secondarietà del castello di presuntuosa sicurezza che ci siamo costruiti intorno. E’ il momento di rivedere i principi edonistici sui quali abbiamo impostato le nostre vite riordinando la graduatoria delle nostre scelte, obiettivi e priorità. Perché quella finora seguita forse è sbagliata”. Parole illuminanti con le quali non si può non essere d’accordo.

Riccardo Padovani

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