Cinema e ricerca dell’anima

A volte, quando scaviamo nei meandri dell’animo umano, parliamo di noi come di viandanti e catturiamo oggetti ed azioni dalla quotidianità per aiutare l’immaginazione nel cammino introspettivo. In buona sostanza, per raggiungere l’anima abbiamo bisogno di un cielo in cui volare, di un mare in cui nuotare, di una strada su cui camminare. Metafora. Tropo. Immagine. La sconfinata solitudine contemporanea, però, rende sempre più difficile l’arte della rappresentazione simbolica: l’uomo si è ormai allontanato da quella parte erratica ed istintuale della propria natura che più facilmente gli forniva immagini del sé. La sua ricerca, ora, si tinge dei toni grigi delle città e la discesa verso le profondità dell’io, perduto il carattere selvaggio di un volo nel cielo infinito, di un’esplorazione nelle profondità della terra, di un tuffo nell’oceano, assomiglia più alla scala di una cantina, come nel film Sesto Senso. Ma prosegue; incessante. E scende quelle scale ogni giorno Bruce Willis; si rifugia tra le carte e le registrazioni raccolte durante il suo lavoro di psicologo infantile, un lavoro di paziente ricostruzione. Un puzzle dell’esistenza, il suo; come lo è quello di Depardieu in Una Pura Formalità di Giuseppe Tornatore, che narra una storia molto simile a quella di un mio racconto di un paio di anni prima, Biglietto di Sola Andata. Sono storie che non ruotano soltanto attorno alla difficile, lenta presa di coscienza della propria morte, ma, come un’ombra al tramonto, si allungano verso il rapporto dell’uomo con se stesso, con la propria anima.

Anima. Che grande parola! L’idea stessa che evoca risulta irrinunciabile. Abbiamo bisogno di sapere che c’è persino dove non può esistere. Dell’odissea spaziale di Kubrik  (2001 Odissea nello Spazio)è protagonista un computer dalla voce suadente, al quale, per mezzo di una semplice operazione crittografica, la cosiddetta “sostituzione di Cesare”, viene dato il nome Hal, attribuendogli, così, quel pezzo d’anima, quella parvenza di umanità che non avrebbe avuto se fosse stato chiamato IBM, sigla da cui il suo nome trae origine (Hal, infatti, in base alla “sostituzione di Cesare”, è nome formato da lettere che, nell’alfabeto, precedono esattamente di un posto quelle che formano la scritta IBM). Anche Tim Burton, in Edward Mani di Forbice aiuta il bravo Johnny Depp a scoprirsi poco a poco un’anima nell’amore, nell’amicizia, così come nella cattiveria e nel rifiuto altrui. In Pinocchio,poi, Collodi e, quindi, Comencini, che ne ha curato una delle più suggestive riduzioni cinetelevisive, hanno scovato l’anima di un burattino di legno nella bacchetta magica di una fata.

L’anima ha fascino, non c’è che dire. Sa far parlare di sé, sia quando alimenta il fuoco delle persone vive, sia quando racchiude la memoria dei corpi che ha abbandonato. Patrick Swayze non è altro che un’anima, in Ghost, ma nulla gli impedisce di continuare ad amare. Un giovane e bellissimo Warren Beatty passa da un corpo all’altro ne Il Paradiso può Attendere, ma sarà la sua anima, infine, a trasparire dai suoi occhi, ad essere riconosciuta dalla donna amata, benché lui abbia ormai dimenticato chi sia.

Cos’è un uomo senza l’anima? Assomiglia al sacco vuoto di pirandelliana memoria: non sta in piedi.

Il Dracula di Bram Stoker, sia nell’intensa interpretazione di Bela Lugosi, sia in quella dell’affascinante Gary Oldman, ci insegna che l’anima sopravvive alla morte e non ha paura delle tenebre se decide di attraversare i secoli pur di ritrovare l’amore perduto, salvo poi allontanarlo da sé per non dannarlo. L’argomento, con più di una variante, è tornato spesso sul grande schermo, compresa la maldestra e melensa saga Twilight, in cui la scelta di diventare un vampiro viene presentata come un’ottima soluzione per poter vivere liberamente una cotta adolescenziale. Decisamente più farfallone del Dracula di Oldman, ma non meno seducente, il Don Ameche de Il cielo può attendere trova nelle tante donne della sua vita, prima fra tutte la sua amata Martha, quelle preghiere che gli consentono di abbandonare l’inferno.

Ecco, l’inferno. Racchiudendo in sé ogni più intenso sentimento, buono e cattivo, l’anima è una mappa per raggiungere le profondità dell’uomo e dell’umanità. Anche il Male la brama, dunque. Nei film di Harry Potter, tratti dalla fortunata saga letteraria di J. K. Rowling, Voldemort parcellizza la sua anima negli horcrux per assicurarsi l’eternità. Il Diavolo, invece, non sembra fare altro che tentare di comprarla. Dal Faust di Murnau ad Angel Heart ogni demone ha avuto la sua anima. Al Pacino ha persino avviato un prestigioso studio legale a New York per tentare Keanu Reevs ne L’Avvocato del Diavolo. È solo una questione di prezzo e, prima o poi, il Diavolo si nutre di un’anima. Tuttavia ciò che lo rende insaziabile è che, nonostante tutto, non riesce mai veramente ad afferrarne il senso, inscindibilmente legato alla natura umana. Proprio così: nessun demone è in grado di comprendere la profondità dell’anima, che sia Mefistofele od un gruppo di alieni in fin di vita che cercano nell’essenza dell’uomo il segreto della sua sopravvivenza.

E’ una città avvolta nelle tenebre e fluttua nel buio siderale. E’ Dark City. Nelle sue strade si fugge senza saperlo; si inseguono false idee, ricordi inesistenti, giungendo da un passato che non esiste più per camminare verso un futuro che non è mai esistito; si sogna Shell Beach, che è solo un’immagine, una pubblicità, una cartolina. Ogni notte i suoi pallidi dominatori, affiancati da un poliziotto incline al buon intuito ed alla malinconia, magistralmente interpretato da William Hurt, e coadiuvati da un bravissimo Kiefer Sutherland, infelice dottore perennemente al margine tra coraggio, paura e follia, modificano la struttura di quel mondo ed iniettano negli uomini ricordi chimicamente elaborati per studiarne le reazioni emotive. Lavorano sul cervello alla ricerca di ciò che rende ogni uomo unico, dell’anima in una parola; ma, come Sewell dirà loro alla fine del film, è una ricerca nel posto sbagliato.

L’investigazione spasmodica su tutto ciò che esula dalla pura razionalità è un tema di fondamentale importanza per la cinematografia di tutti i tempi che, di volta in volta, si ritrova ad assorbire ed interpretare, con la rivoluzione delle immagini, i concetti filosofici dominanti.

In modo pressoché uniforme la cultura arcaica ha collocato nell’anima ogni forma d’amore e le ha donato un paio d’ali, affidandole un ruolo di mediazione tra la vita terrena e quella ultraterrena; lo scetticismo contemporaneo, invece, le ha tarpate, spostando l’attenzione verso i più arditi meccanismi introspettivi. Una cosa sola è certa: è una ricerca, questa, in cui si incontrano molti falsi percorsi che conducono verso luoghi inutili come Shell Beach. Oddio, proprio inutili no: non si torna mai a mani vuote, neppure da un vicolo cieco.

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