La questione immigrazione, al centro del dibattito politico europeo, ha generato un inaspettato scuotimento delle cancellerie internazionali sui problemi della Siria.
Si è addirittura riascoltata la voce dell’ONU, sinora grande assente. Staffan de Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite, infatti, qualche settimana fa è sbottato: “Se i 4 paesi che hanno influenza – Stati Uniti e Russia ma soprattutto Iran e Arabia Saudita – si parlano, il conflitto può essere risolto in un mese”. Ma se ci si continua a nascondere, l’unico ad avanzare sarà l’Isis e “i siriani continueranno a fuggire a decine di migliaia”.
Bashar al-Assad, al momento, controlla ancora un quinto del territorio siriano, avendo l’Isis conquistato sempre maggiori posizioni, sino ad arrivare alla periferia meridionale di Damasco. Ma la situazione è complicata dalla frammentazione dell’opposizione “non ISIS” in una miriade di gruppi e movimenti e dall’ostinazione con cui il dittatore resta al suo posto. Assad, infatti, non mostra alcuna volontà di arrivare a un negoziato e continua a bollare i suoi avversari come terroristi.
Il primo a reagire all’appello dell’inviato ONU è stato il Presidente francese Hollande che, però, ha solamente previsto l’allestimento di alcuni voli di ricognizione, in vista di eventuali raid aerei, in collegamento con una coalizione di paesi ONU ancora non ben definita. Hollande ha inoltre ribadito che la soluzione non può passare con il mantenimento al potere di Assad, la cui presenza, tuttavia, è una garanzia per gli interessi di Mosca e Teheran in Siria. L’Iran, infatti, considera Assad e gli hezbollah libanesi come strumenti per perpetuare la propria influenza nell’area; la Russia come il garante della sua unica presenza nel Mediterraneo, nell’ultima base navale rimastagli, cioè quella siriana di Tartus.
I partners europei, cioè i maggiori interessati a contenere il massiccio esodo migratorio, sono indecisi o contrari a interventi militari di qualsiasi tipo. Non è chiara la posizione del Regno Unito: se il ministro degli Esteri Philip Hammond ha escluso la partecipazione di Londra ai raid aerei, il premier Cameron ha invece affermato di “non escludere nulla” riguardo una azione militare contro l’Isis. D’altro canto, Matteo Renzi ha subito fatto sapere che l’Italia non parteciperà alle iniziative che Francia e Inghilterra hanno annunciato di studiare e anche il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel si è detto contrario a un intervento della Germania.
Nel discorso televisivo di quattordici minuti, in occasione del simbolico anniversario dell’11 settembre, Barak Obama ha finalmente proclamato la volontà di “degradare e alla fine distruggere” lo Stato Islamico in Iraq e in Siria, in una missione che alla lunga sembrerebbe, a tutti gli effetti, il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra civile siriana. Fino ad ora, infatti, la strategia sotterranea dell’amministrazione USA era stata quella del «doppio contenimento», cioè di mantenere un bilanciamento delle forze simile a una situazione di stallo. Ma, a fronte del fallimento di circa il 70% dei raid sinora effettuati e del flop del progetto di addestramento di 5000 ribelli filo-occidentali, ha dovuto riconoscere che il piano americano per respingere l’Isis non è andato a buon fine. Il presidente ha quindi annunciato di voler allargare l’azione USA in Iraq, con l’aiuto di una coalizione internazionale di paesi europei e dell’area, sia pur sempre e solo con raid aerei. Al fianco degli Stati Uniti sarebbero schierati dieci paesi arabi: Qatar, Emirati, Oman, Bahrain, Arabia Saudita, Kuwait, Giordania, Egitto, Libano e Turchia. Sul destino di Assad, infine, Obama ribadisce con chiarezza che deve abbandonare il potere; in ciò è spalleggiato da Turchia e da Arabia Saudita, esplicitamente contrarie al fatto che i soldati di Assad possano partecipare ad azioni congiunte anti-ISIS.
A questo punto, la settimana scorsa, è giunta la mossa di Putin che ha messo sotto scacco l’occidente. La Russia ha prima deplorato la posizione di Obama, asserendo che gli attacchi aerei Usa senza il consenso di Damasco e in assenza di decisioni del consiglio di sicurezza dell’Onu sarebbero un’aggressione perché violerebbero il diritto internazionale”. Poi ha incrementato massicciamente l’invio di armi ad Assad mediante un ponte aereo sui cieli dell’Iran (consenziente), evitando la Turchia, perché membro Nato e nemica di Assad. Con tale azione, ha fatto balenare ad americani ed europei il sospetto di operare per lo sbarco di truppe, mirando a creare una testa di ponte sulla base di Tartus, per poi realizzare infrastrutture (un aeroporto), per i propri raid aerei contro la minaccia di Isis e dei ribelli filo-occidentali. Infine, solo ventiquattro ore fa, è giunto a Tel Aviv per rassicurare Israele che le azioni della Russia nella regione non mettono in discussione i confini e la sicurezza dello stato ebraico.
Secondo Der Spiegel, Mosca è stata così in grado di dettare l’agenda al mondo occidentale, che sta cercando di reagire ma molto cautamente. Sembra, cioè, che Obama stia valutando di negoziare con la Russia dal punto di vista diplomatico; cosa che, ancora l’11 settembre scorso, sarebbe stato impensabile. Non è però ancora chiaro quanto possa essere ampia tale supposta apertura diplomatica. Il compromesso dell’ ordinata uscita di scena di Assad, con il mantenimento del regime militare, non sembra che possa convincere Mosca o Teheran. In tale prospettiva, Washington è in attesa del discorso di Putin all’assemblea generale dell’Onu della prossima settimana pur temendo che, in tale occasione, si palesi di fronte a tutto il mondo il protagonismo del rivale ex-sovietico e l’ inadeguatezza del proprio ruolo. E’ scontato, infatti, che Putin ribadisca la legittimità internazionale del governo del suo alleato, unico riconosciuto dall’assemblea delle Nazioni Unite.
di Federico Bardanzellu
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