11 settembre 2001 – L’attacco di ieri, il terrore di oggi

Torri gemelle (immagine)A sedici anni dall’attentato islamico negli Stati Uniti di America, ripercorriamo insieme quei tragici eventi che hanno segnato indelebilmente la storia criminale ed analizziamo il solco profondo che hanno lasciato nell’attuale percezione del terrore.

“Siamo in guerra”

Stati Uniti d’America. Martedì 11 settembre 2001.

Il presidente George W. Bush è a Sarasota, Florida, in visita ad una scuola elementare.

Ore 8.40. La base militare di Otis, nel Massachussetts, riceve l’ordine di preparare due caccia per una ricognizione sulla zona di New York a causa di un possibile dirottamento di un volo di linea. Sono solo quattro gli aerei adibiti al controllo del settore nord-orientale, cosa che evidenzia quanto le difese americane siano basse.

Ore 8.45. Il Boeing 767 n. 11 dell’American Airlines, che si sospettava dirottato, si schianta sulla Torre Nord del World Trade Centre, a New York.

La Torre sta bruciando nei piani alti. La scena di quello schianto gela il sangue di chiunque sia in strada; di chiunque sia nelle proprie case, nelle scuole, negli uffici.

Bush viene immediatamente avvisato. Ancora si pensa ad un fatale incidente.

Ore 8.52. I due caccia di Otis si levano in volo. I piloti sono all’oscuro di quanto appena accaduto a New York, pertanto partono disarmati. Del resto, il mero dirottamento non è atto di guerra. Apprenderanno i fatti via radio.

Ore 9.03. Il disegno criminoso che si cela dietro il primo schianto improvvisamente emerge in tutta la sua drammaticità: un altro aereo, il n. 175 della United Airlines, si schianta sulla Torre Sud, colpendola più in basso rispetto alla gemella. Ciò determina la compromissione di una via di uscita per molte più persone. Una nuvola di fiamme e fumo nero si leva nel cielo. Al momento di questo secondo schianto i piloti dei caccia di Otis sono a 70 miglia da lì. Vengono informati via radio della situazione. Ormai è chiaro che non si tratta di incidenti. C’è una volontà omicida, dietro queste azioni; un’intenzione terroristica lucida e diabolica; un maledetto disegno di morte.

Nella scuola di Sarasota, il capo dello staff si avvicina repentinamente a Bush ed, incurante del protocollo, gli parla all’orecchio. Non più di due frasi al massimo. Forse qualcosa di simile a: “Un secondo aereo si è schiantato a New York sull’altra Torre. Siamo sotto attacco”. Il volto di Bush ondeggia leggermente come a dare cenno di assenso ad un suo sospetto. Gli occhi sono rabbiosi e si morde leggermente il labbro inferiore: è sconvolto ed infuriato. Dalla scuola riesce a vedere il video in televisione. Mormora: “Siamo in guerra”.

Gli altri attacchi

Quando il presidente Bush rilascia la sua prima dichiarazione alla stampa, ancora si pensa che l’attacco sia concentrato su New York.

Ore 9.30. Il controllo dei voli aerei rileva un altro apparecchio sospetto: sta procedendo a bassa quota con il trasponder disinserito. Si tratta del volo n. 77 sempre dell’American Airlines: ha modificato rotta e punta su Washington.

Partono altri caccia, anche dalla base di Langley, in Virginia, questa volta in assetto da guerra, con un cannoncino interno M 61 Vulcan da 20 mm e missili aria-aria tipo AIM 9 Sidewinder ed AIM 7 Sparrow.

Il presidente Bush viene trasportato d’urgenza a bordo dell’Air Force One; il vice presidente Dick Cheney viene ricoverato con la moglie in un bunker situato nei sotterranei della Casa Bianca. Lo Scenario del Giorno del Giudizio è un protocollo da attuare in caso di potenziale attacco bellico e richiede che il Presidente venga portato in un luogo sicuro. Bush insiste per tornare a Washington, ma la sicurezza ritiene vi siano minori pericoli rimanendo in volo. Sarà così fino alle 15.06, quando, scortato da caccia armati, l’aereo atterrerà nella base di Offutt, in Nebraska, dotata di bunker antiatomico. A partire dalle 10.30 il protocollo di protezione si applicherà anche agli altri vertici governativi, in modo da assicurare, in qualunque frangente, la linea di successione alla presidenza ed al governo del Paese.

Ore 9.35. Il volo 77, con 64 passeggeri a bordo, si scaglia sul Pentagono. I caccia più vicini sono a 12 minuti di volo da lì.

I testimoni oculari parlano di un enorme boato, di un tremore della terra, di fiamme altissime e fumo denso.

Washington è in preda al panico; tutta l’America lo è, così come gran parte del mondo, che sta seguendo questa tragedia sugli schermi televisivi.

Vengono immediatamente evacuati tutti gli uffici governativi ed i caccia vengono convogliati sulla Casa Bianca, che si sospetta essere uno dei prossimi obiettivi.

In quel momento ci sono ancora 4836 aerei in volo sugli Stati Uniti. Il ministro dei trasporti Norman Mineta, che condivide il bunker con il vice-presidente, ordina che siano fatti atterrare tutti. Bush e Cheney concordano nel trattare i velivoli inadempienti come aerei nemici in tempo di guerra. L’operazione è rapida. Ne restano solo 10 non identificati. Tra questi il volo n. 93 ancora una volta dell’American Airlines, che, originariamente diretto in California, sta inspiegabilmente facendo rotta verso est.

Dalla centrale di controllo del traffico aereo viene intercettata una comunicazione proveniente da quel volo. Vi si fa cenno al sospetto di una bomba a bordo che richiede un cambio di rotta. Dopo di che la comunicazione viene interrotta ed il transponder disattivato.

Ore 9.50. A New York crolla la Torre Sud. E’ una scena apocalittica. Sembra sciogliersi su se stessa, cancellando ogni vita: le persone intrappolate, così come coloro che sono entrati a salvarle.

Alcuni caccia convergono sul volo 93. L’ordine è di abbatterlo nel caso prosegua la sua corsa verso Washington senza altri contatti radio. La tensione è massima.

Ore 10.03. Ancor prima di essere intercettato dai caccia, il volo 93 si schianta in un’area boscosa della Pennsylvania. Come esclama di primo acchito il vice-presidente: “Qualcuno, su quel volo, si è comportato da eroe”. E’ così, infatti. Attraverso i telefoni cellulari, molti passeggeri hanno appreso degli altri attacchi ed hanno capito che anche quello non è un semplice dirottamento, ma un ennesimo progetto kamikaze; hanno capito di non avere scampo e decidono di agire, affinché il loro sacrificio non sia vano, affinché quel volo si schianti senza uccidere altri innocenti.

Una decina di persone, tra passeggeri ed assistenti di volo, riesce a telefonare ai propri cari, a pronunciare poche parole di commiato, ad esprimere un’ultima volta il proprio amore per un genitore, un figlio, una moglie, un marito. E’ straziante il racconto di quei brevi messaggi, alcuni chiusi frettolosamente con poche parole su quanto sta per accadere, sul fatto che devono andare per unirsi agli altri: “Stiamo per reagire. Devo andare. Addio”.

Sì, qualcuno si è comportato da eroe. Tutti loro, in realtà. Hanno assalito i dirottatori, si sono esposti ai fendenti dei loro coltelli, ma, numericamente superiori, li hanno infine sopraffatti. Prima di cadere l’aereo ondeggia. La scatola nera contribuisce a ricostruire quegli ultimi attimi. Il terrorista che sta pilotando vuole evitare che i passeggeri ribelli entrino nella cabina di pilotaggio e dirige l’aereo a destra e manca nella speranza di disorientarli, di intralciare la loro offensiva. Forse sta lottando con qualcuno di loro. Nel fare questo si schianta.

Due minuti dopo, viene fatta evacuare anche la Casa Bianca. C’è più di un aereo in volo ancora non identificato. L’allerta è massima.

Ore 10.10. Crolla la parte dell’Ala E del Pentagono colpita trentacinque minuti prima.

Ore 10.28. Crolla anche la Torre Nord a New York. Il World Trade Centre non c’è più; si è disintegrato. New York è sovrastata da una gigantesca nuvola di polvere grigia e da un boato di morte che incombe su qualunque parola, qualunque preghiera, qualunque esile richiesta di aiuto.

L’attacco è finito.

Il disvelarsi di pesanti responsabilità

Ore 19.00. Il presidente Bush torna a Washington.

Il bilancio dei morti cresce di minuto in minuto. E’ una tragedia che scriverà quasi 3.000 nomi su altrettante lapidi; 3.000 esseri umani; 3.000 anime innocenti. A ciò si aggiungeranno, nel tempo, alcuni suicidi per depressione e disperazione, nonché le morti per cancro, causate dalle polveri sollevate a seguito degli impatti.

Il mondo intero è attonito. I telegiornali, tuttavia, trasmettono anche scene di esultanza, che hanno per protagonisti alcuni gruppi islamici. Una donna, col volto incorniciato dal velo tradizionale, ride, gioisce della morte altrui e gorgheggia un suo inno alla vittoria. Alcuni intellettuali e politologi di varie nazionalità, inoltre, adombrano una meritata punizione giunta agli Stati Uniti per la politica fino ad allora condotta. Fa rabbrividire quanta mancanza di empatia e di umanità abiti la Terra.

Gli Stati Uniti attribuiscono immediatamente la responsabilità degli attentati ad Osama Bin Laden, il miliardario saudita, integralista islamico sunnita, indiscusso leader dell’organizzazione terroristica Al-Quaeda: suoi gli obiettivi, suoi i metodi, sua la potenza economica necessaria per una simile azione. La frase di Bush, su cui, da quel momento, verrà costruita una lunga sterile polemica, è “Osama Bin Laden, vivo o morto”. E’ la frase di un Presidente, in realtà; il Presidente di un Paese ferito, attaccato, violato.

Inizialmente Bin Laden nega, affermando, attraverso la rete televisiva Al Jazeera, che gli attacchi suicidi sono stati realizzati da “una piccola avanguardia di musulmani, la prima linea dell’Islam” benedetti da Dio, affinché distruggano l’America; successivamente, pur non riconoscendo apertamente il proprio coinvolgimento nel progetto, designa gli obiettivi raggiunti come legittimi, dovendo gli islamici vendicare l’uccisione della loro gente. Nel mese di novembre, infine, durante una delle operazioni americane in Afghanistan, viene rinvenuta una videocassetta nella quale Bin Laden ed alcuni suoi seguaci discutono i particolari degli imminenti attentati dell’11 settembre. I sospetti americani, dunque, trovano definitiva conferma: l’attentato ha una matrice integralista islamica che fa capo ad Osama Bin Laden e la guerra è stata dichiarata.

L’Apocalisse

Sono disumane le immagini che arrivano da New York. Mostrano persone che si gettano dalle finestre di quel che resta delle Torri Gemelle: voli disperati di chi ha solo da scegliere come morire, se bruciato, fuso alle lamiere ed ai vetri esplosi che lo hanno investito, finché il fuoco non entri nei suoi polmoni ed il cervello non percepisca il dolore della morte, lentamente, o gettarsi nel vuoto e sperare che la caduta sia la più rapida possibile, perché l’unica certezza è che l’impatto finale chiuderà le trasmissioni per sempre e non ci sarà più nessun dolore. Ricordo ancora l’immagine di due persone, un uomo ed una donna, che si sono gettate nel vuoto tenendosi per mano: un ultimo gesto d’amore.

Molti i vigili del fuoco che restano sotto le macerie nel tentativo di portare in salvo il maggior numero di persone. Eroi. Tra di essi anche il cappellano Michael Judge, che ha anteposto l’Unzione degli Infermi alla sua stessa vita.

Sin dalle prime ore e per tutti i giorni seguenti la disperazione avrà il volto di tutti coloro che cercano i propri cari dispersi. Gli ospedali hanno bisogno di sangue. I newyorkesi, uniti al di là di ogni polemica, di ogni fazione e di ogni tragedia personale, si mettono in fila per donare il proprio, mentre su tutte le finestre compaiono le bandiere a stelle e strisce e chi non ne ha una, la disegna.

Rudolph Giuliani, sindaco uscente, nonostante il cancro lo stia fiaccando, esce a porgere il proprio aiuto, il proprio incoraggiamento alla città, la sua città. Si reca subito alle Torri, prima del crollo; si rimbocca le maniche e presta soccorsi affiancando i vigili del fuoco. Le prime parole che pronuncia sono di incoraggiamento ed unione: “Il primo dei Diritti Umani è la libertà dalla paura. Non abbiate paura”. E la città di New York risponde con i fatti al suo sindaco, perché in quattro giorni è di nuovo in piedi.

La lezione offerta dai politici, poi, non è meno commovente: superato ogni dissenso, danno tutti pieno sostegno a Bush: il past-president Bill Clinton, sua moglie Hilary, allora senatore per lo Stato di New York, persino Lieberman, lo sconfitto candidato democratico alla vice-presidenza. Il Congresso vota all’unanimità lo stato di guerra e la punizione per i colpevoli. A Washington, senatori e deputati intonano God Bless America, una sorta di secondo inno americano, scritto nel 1918, che richiama l’attenzione di tutti sul sentimento di appartenenza; poco dopo è la volta dell’inno di battaglia della Repubblica: “Glory, Glory! Hallelujah!”.

Quando, il giorno seguente, Bush va a ringraziare tutti coloro che stanno lavorando alacremente tra le macerie, si trova di fronte persone umili e sfinite che, tuttavia, resistono e vanno avanti perché è ciò che va fatto; persone che accolgono le sue parole inneggiando al loro Paese: “U.S.A. – U.S.A. – U.S.A.”.

C’è chi, vedendo queste manifestazioni di coesione, ha definito gli americani bambinoni, od indottrinati; io li definisco patrioti, al pari di Oriana Fallaci, che vive quella tragedia in diretta. E la scrittrice dedicherà molte riflessioni a questi attentati. Nei suoi tre libri, che seguiranno l’11 settembre, scriverà, più che altrove, un durissimo j’accuse nei confronti del mondo islamico [La rabbia e l’orgoglio, La forza della ragione, Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci].

Di sicuro questa è e resterà una data che rappresenta un punto di cesura per il mondo intero.

Il sale del terrore

Il dramma di quegli attacchi ha dimostrato che la guerra può avere un aspetto occulto; che in ogni istante ed in ogni luogo, in base alla pura imprevedibilità, si può subire un attacco da un nemico, che fino a quel momento nessuno ha considerato tale.

Ciò comporta un terrore recondito ed invasivo. Sigmund Freud lo definisce Unheimlich, il Perturbante. Stephen King ne farcisce i suoi horror. Se vediamo un uomo aggredire un altro gridando “ti uccido”, proviamo paura, ma non terrore; se, invece, ad esempio, è un bambino a tenere in mano un coltello mentre, avvicinandosi alla mamma, con un’infantile voce monocorde ed un sorriso spento, pronuncia parole come “vieni, mammina, vieni da me”, allora monta il terrore. Heim, in tedesco, significa casa. Il terrore, dunque, viene da qualcosa di familiare, di sicuro che, improvvisamente, si rivolta contro di noi, si rivela pericoloso ed, a pericolo passato, ci mette comunque in una condizione di sospetto e sfiducia.

Non a caso parliamo di terrorismo, ossia di un terrore seminato non solo nel corso degli attentati, ma anche nell’attesa irrazionale d’essere nuovamente colpiti, cosa che paralizza le normali attività, indebolisce le difese e distrugge la coesione sociale. La confusione, l’angoscia che gli attacchi terroristici generano è direttamente proporzionale al fatto che chiunque, anche il vicino di casa simpatico, o sua figlia, che siano islamici o non, possono essere cellule radicalizzate e rappresentare potenziali pericoli. In un simile contesto di sospetto generalizzato, il livello di protezione del gruppo si abbassa.

Oggi sento spesso accuse di razzismo. A volte dovremmo anche capire che il terrore agisce in modo subliminale.

Aggiungiamo a ciò l’inconoscibilità dei meccanismi psicologici che inducono i kamikaze a compiere l’estremo gesto; meccanismi che distruggono gli schemi di interazione con il nemico tradizionale, quello che, in qualunque guerra, vediamo come un nostro alter ego, dotato del nostro stesso coraggio, della nostra stessa paura, del nostro stesso istinto di sopravvivenza.

L’altruismo deviante

In realtà anche il kamikaze risponde ad un peculiare istinto di sopravvivenza, non del singolo, però: attraverso il suo sacrificio egli favorisce la propria genìa, assicurandole ampia crescita e nuovi territori per realizzarla.

Il fenomeno è ben spiegato da Hamilton [The genetical theory of social behaviour]. Si tratta di selezione naturale. Nel mondo animale è fenomeno diffuso. Pensiamo, ad esempio, alle marmotte: all’avvicinarsi di un potenziale predatore, la sentinella inizia a fischiare al fine di far rientrare le altre sane e salve nelle tane. Così facendo inevitabilmente attira su di sé l’attenzione del predatore; dunque accetta un potenziale sacrificio affinché il gruppo si salvi. Lo stesso accade in un alveare: le api sterili si affannano a proteggere la regina e la sua prole, in tal modo ponendo la propagazione del patrimonio genetico al di sopra dell’interesse del singolo.

La differenza sta nel fatto che l’atteggiamento della marmotta o delle api è difensivo e non offensivo, come quello dei kamikaze. Differenza non da poco.

Noi occidentali abbiamo una parola che definisce la difesa della propria genìa: altruismo, che, tuttavia, ha significato composito, poiché il meccanismo biologico e riproduttivo irrazionale or ora descritto è attivato da un comportamento razionale rispondente all’etica. L’altruista vero viene mosso dall’amore ed agisce solo in funzione del bene altrui. Se un uomo, sacrificando se stesso, salva la vita dei propri figli, dei propri fratelli e dei propri nipoti, lo fa per supremo amore e non, certo, per l’altruismo biologico celato dietro la scelta di sacrificare un solo corredo genetico a fronte di molti corredi genetici a lui affini e potenzialmente riproduttivi. La selezione naturale è, per lui, un profitto aggiuntivo non preventivato.

Al contrario, il kamikaze, non agendo mai per amore, ha bisogno di un motore diverso dall’etica e tale motore è la legge divina e la promessa di un aldilà pregno di ricompense, esattamente come accadeva agli assassini del Vecchio della Montagna di cui parla Marco Polo.

Il traite d’union tra la spinta genetica alla sopravvivenza dell’etnìa ed il precetto religioso che rende per loro “giusta” l’azione, offensiva e non difensiva, con cui essa viene messa in pratica, è l’indottrinamento, ossia l’uniformarsi del pensiero del singolo a quello di un leader particolarmente carismatico, il quale, facendo leva su un istinto sano, la selezione parentale, lo volge al male, mostrando la violenza come unica via per la sua realizzazione; e non una violenza subordinata al mancato ottenimento di ciò che si desidera. L’aggressione terroristica, infatti, non segue una richiesta negata, una trattativa non conclusa, bensì nasce come estremo atto d’egoismo. In psicologia si chiama pseudo-speciazione culturale, ossia l’attacco e la soppressione di membri della stessa specie, sebbene appartenenti a gruppi diversi, anche in presenza di atti di sottomissione, di manifestazione di non belligeranza, di inferiorità, cosa che non accade nel resto del mondo animale, come evidenziato da Konrad Lorenz. In buona sostanza, facendo leva su un istinto primordiale, quello di salvare la propria genia da una minaccia esterna, e sulla conseguente egoistica ricompensa divina, i leader integralisti islamici inducono i kamikaze e le loro famiglie a ritenere nemici i civili inermi di tutto il mondo.

I terroristi dell’11 settembre e quelli delle stragi più recenti hanno agito, senza segni di pietà, nonostante l’incapacità delle vittime a difendersi. Sono stati addestrati per questo. E l’addestramento, o meglio l’indottrinamento, consiste nel far credere ai militanti che ogni aspetto delle altre culture rappresenta una minaccia per il popolo a cui appartengono e per le loro famiglie, e che le azioni violente che vengono loro richieste saranno remunerate: per i terroristi con il ritorno a Dio; per i loro familiari con l’aiuto della comunità che ha beneficiato dell’azione omicida. In tal modo si promuove una cultura dell’odio e della violenza mascherandola come risposta religiosa e biologica alla salvezza della propria genìa. Sinceramente ho trovato inquietante ma anche illuminante, sotto il profilo psicologico, quel che dopo l’11 settembre la madre di Nafiz, uno dei terroristi, ha dichiarato in video: “Spero che tutti i miei figli facciano la stessa fine”. Per noi occidentali è assolutamente innaturale che una madre auspichi la morte dei figli, qualunque sia la causa che la determini. E, siccome un’opposizione delle donne a questo sistema di morte potrebbe vanificarlo, perché sono tante, perché sono loro a crescere i figli, sia fisicamente che moralmente, la religione islamica, attraverso la sottomissione ed il condizionamento, ha trovato il modo per renderle inoffensive, od addirittura complici nell’odio e nella violenza; altruistiche anch’esse, in senso biologico e non etico.

Il vero altruismo, però, quello che si fonda sull’amore e sulla generosità, è più forte. Lo hanno dimostrato i passeggeri del volo 93: pur disarmati, hanno sopraffatto gli attentatori. Avevano una motivazione più intensa dei loro assassini, poiché non coincideva con l’egoistica ascesa a Dio, ma con l’amore verso il prossimo, che non ha religione ed è prerogativa dell’unica, vera superiorità.

di Raffaella Bonsignori

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