Roma in solitaria

Trinità dei Monti

Una lunga camminata per raccontarvi, attraverso poche parole e qualche immagine, una città evanescente, un mondo alla rovescia che sembra uscito dalle pagine di una triste profezia.

Roma, in questi maledetti giorni del covid, è una fusione tra Apocalisse e Genesi: il fantasma di se stessa, ma, forse, anche la promessa di un nuovo mondo.

Il vuoto è imponente.

Nessun rumore, nessun brusio. Solo un silenzio assordante in cui parlano le pietre, le chiese, i monumenti, l’acqua delle fontane.

L’antitesi di ogni facondia.

Una sorta di osmosi abbatte l’individualismo. Non siamo più noi, con i nostri pensieri, le nostre vite, le nostre miserie e le nostre vanità. No. Abbiamo attraversato lo specchio, come Alice, e siamo diventati la città; una città che celebra il senso della solitudine. Nel profondo silenzio delle cose, si percepisce una sovrapposizione tra pubblico e privato, tra dramma generale, astratto e devastatore, racchiuso nella desolazione delle strade, e dramma particolare, personale, quello di una popolazione prigioniera, che parla attraverso l’assenza.

Nell’avvicinarsi al centro storico, si incontrano presidi militari. Le camionette sbarrano alcune strade. La mente vola verso scenari poco rassicuranti di lotte armate. In pochi secondi, si materializza il ricordo dei reportage di guerra studiati.

Di fronte a tute mimetiche e mitra, viene quasi voglia di esibire il tesserino di giornalista come uno scudo, ma i volti dei militari sono rasserenanti, per fortuna. Del resto, loro sono avvezzi a gestire situazioni di crisi e non sprecano tempo a fare gli inquisitori. Chiedono di non essere fotografati, ovviamente, controllano le credenziali, ma, poi, danno il via libera: sanno bene che noi giornalisti siamo gli occhi della gente, siamo le voci di chi non può uscire da casa.

Camminare sulle strade deserte genera stupore, ma dona anche un vago senso di potere e si compiono gesti recitati: si cammina a testa alta come Cesare che valica il Rubicone. I nostri passi sono sospinti dall’idea della conquista e il paesaggio ci aiuta in questo nostro delirio bellico, perché ha una sua ostilità, una voglia mal celata di essere lasciato in pace: non un posto per fermarsi, nemmeno un bar per bere un bicchiere d’acqua. Sono chiusi per decreto.

Il sole infuoca la mascherina che ci protegge dal virus e brilla sull’asfalto di strade che sembrano lunghe il doppio.

Raddoppia anche la bellezza, però. Si percepisce come arte persino la forma della solitudine. Ombre e luci si intrecciano ad esaltare i colori in una serenità che contrasta con le ragioni che l’hanno determinata.

Roma sembra posata su un cavalletto e affidata alla mano di un pittore rinascimentale; sembra una bella dama ritiratasi, suo malgrado, in un elegante salotto, dove un amalgama prestigioso di arte e raffinatezza sublima la desolazione in sentimento, pur senza togliere vigore all’eterna battaglia tra Amore e Morte.

È innaturale tanto silenzio.

Piazza Navona

Il Tevere scorre sereno. E il colonnato di S. Pietro cinge l’intera città in un abbraccio, proprio come voleva Bernini.

Roma è diventata un gigantesco luogo di preghiera, dove la realtà è inafferrabile, al pari dell’Essere Supremo.

Il nostro vivere civile si è ormai confuso con quello spirituale, nel bene e nel male.

Preghiamo tutti, anche quelli che non l’hanno mai fatto, anche quelli che non sanno come si fa, ma facciamo anche altro: lasciamo che la paura ci domini, secondo lo stesso schema tracciato dal Dio biblico.

Il covid è il nuovo inferno e dell’inferno bisogna avere una paura smisurata.

Non importa se l’umanità ha conosciuto inferni peggiori e ne è uscita. Importa che la paura ci renda felici di rinunciare alle nostre libertà; che ci convinca ad abbracciare un isolamento prolungato che produce la decadenza del bisogno critico.

Il Leviatano di Bosse troneggia su una città deserta, a pensarci bene.

E paura sia. Anche perché nessuno la chiama più così.

La nuova frontiera della comunicazione politica è cambiare nome alle cose. La paura è stata trasformata in prudenza; l’inerzia in saggezza; la critica in follia; e la rinuncia alle libertà è stata definita cambio di abitudini. Scaltra oratoria che farebbe invidia all’Humpty Dumpty di Lewis Carroll. Se il sistema sanitario fosse stato adeguato e non strozzato dalla mancanza di fondi, dirottati dal piacere tutto oligarchico di farne altro; se le misure di prevenzione fossero state davvero prese sin dall’inizio e non soltanto raccontate sotto i riflettori della tv; se avessimo avuto i presidi medici necessari per una corretta diagnosi da effettuarsi su tutta la popolazione, stilando una statistica seria e indicando una percentuale di letalità che non abbia come denominatore solo moribondi, oggi, forse, non parleremmo di “scelte etiche” che  disseppelliscono l’odioso ius vitae ac necis dei latini, non saremmo prigionieri nelle nostre case, o, quanto meno, non lo saremmo in questo modo, non vedremmo andare in fumo la nostra economia, non dovremmo ascoltare la voce grossa dell’Europa matrigna; non dovremmo vivere nella mortificazione dei diritti.

C’è da chiedersi chi ci abbia messi in ginocchio. Un virus?

Intanto, le nostre città fantasma urlano dal loro silenzio e reclamano Vita.

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