Per UK la partecipazione alle elezioni europee sarà un secondo referendum sulla Brexit

La storia recente del Regno Unito sarà ricordata per gli infiniti colpi di scena che si sono susseguiti a partire dal 23 giugno 2016, giorno del referendum sulla Brexit.

Il quesito oggetto del referendum era di una semplicità lapidaria: Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union? 17.410.742 sudditi di sua maestà la regina Elisabetta votarono per lasciare l’Unione europea, 16.141.241 si espressero per rimanerci.

In termini percentuali lo scarto fu modesto, il 51,89% contro il 48,11%, ma bastò a decretare la vittoria dei favorevoli alla Brexit. Nove mesi dopo, il 29 marzo 2017 il governo invocò l’articolo 50 dei Trattati sull’Unione europea e informò il Consiglio europeo che il paese avrebbe lasciato l’Ue il 29 marzo 2019. Subito dopo ebbe inizio la complessa fase di negoziazione, tra Londra e Bruxelles, delle modalità di uscita in accordo all’articolo 50. 

Il 10 dicembre 2018 una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha affermato che l’articolo 50 può essere revocato unilateralmente da chi l’ha invocato e che la revoca può avvenire senza il voto favorevole degli altri stati membri.

A portare il caso davanti alla Corte europea, supremo interprete del diritto dell’Unione, sono stati un giudice scozzese ed uno sparuto gruppo di politici scozzesi e inglesi, tra cui europarlamentari, che volevano sapere se fosse ancora possibile per il Regno Unito fermare Brexit prima che entrasse in atto.

L’11 dicembre scorso il parlamento inglese ha bocciato la ratifica dell’accordo su Brexit raggiunto da Theresa May dopo estenuanti negoziazioni con la Commissione europea. Nonostante le drammatiche conseguenze rappresentate da un’uscita senza accordo, a quella bocciatura ne sono seguite altre due. Ciò ha evidenziato enormi divergenze non solo tra governo e opposizione, ovvero tra conservatori e laburisti, i due partiti storici del Regno Unito, ma persino all’interno di ciascuno di essi.

Il risultato è stato quello di rimandare l’uscita al 31 ottobre 2019 (ultimo giorno del mandato dell’attuale Commissione, ndr) con la conseguenza dell’automatica partecipazione dei cittadini del Regno Unito alle elezioni europee.   

Un’altra conseguenza della sentenza della Corte europea è arrivata il 20 febbraio 2019, quando un ex docente universitario ha avviato una petizione dal titolo “Revoke Article 50 and remain in the EU”. La petizione è partita alla chetichella, ma già il 21 marzo 2019 aveva raggiunto un milione di firme. Con 2000 firme al minuto ha registrato il più alto traffico mai verificatosi sul sito web delle petizioni del Parlamento britannico, tanto da causarne il blocco.

Sabato 23 marzo, giorno in cui un milione di persone è sceso nelle strade di Londra per chiedere un secondo referendum, la petizione aveva raggiunto 4,5 milioni di firme diventando la petizione online più firmata della storia. Il 31 marzo la petizione ha raggiunto la quota di 6 milioni di firme.

Nonostante questo straordinario risultato, Theresa May ha dichiarato più volte che non avrebbe revocato l’articolo 50 e che avrebbe fatto tutto il possibile per realizzare il mandato del referendum del 2016, compresa l’opzione di dimettersi da primo ministro del governo.

Infine l’ultimo colpo di scena, avvenuto poche ore fa e rappresentato dall’annuncio, per lo meno tardivo, da parte della May, di voler consentire, dopo le elezioni, che il  Parlamento britannico si possa esprimere sull’opportunità o meno di tenere un secondo referendum sulla Brexit. 

Fin qui, in estrema sintesi, la storia degli ultimi tre anni del Regno Unito. Dopodomani 23 maggio gli inglesi voteranno i propri rappresentanti al parlamento europeo. Che risultato dobbiamo aspettarci? Fare una previsione è difficile e tuttavia alcune considerazioni sono possibili. Vediamo.

Le vicissitudini politiche di oltre Manica hanno creato due effetti principali. Il primo è stato quello di far crescere la disaffezione degli elettori nei confronti della politica e dei partiti tradizionali rappresentati in parlamento. Dall’altra ha amplificato, nella società come nella politica, la polarizzazione tra chi è a favore della Brexit e chi è contrario.

Il risultato è stata la nascita di nuovi partiti politici riconducibili a due blocchi contrapposti, uno pro e l’altro contro la permanenza nell’Ue. Contro la permanenza in Ue c’è il “Brexit Party”, fondato solo poche settimane fa da Nigel Farage, e l’UKIP, UK Independence Party. Per la permanenza in Ue sono schierati i Liberal Democrat (Liberaldemocratici), il nuovo partito Change UK, i Verdi e l’SNP, partito nazionale scozzese. E poi ci sono i partiti tradizionali, Conservatori e Laburisti, i primi tendenzialmente pro Brexit, i secondi contro. 

In un recente sondaggio il Brexit Party ha ottenuto un risultato sorprendente, con oltre il 33% delle preferenze, circa il doppio dei voti ottenuti da ogni altro partito. Il sondaggio ha rilevato che il 17,3% delle preferenze sono andate ai Liberaldemocratici, il 16,1% ai Laburisti e il 9,2% ai Verdi. I Conservatori sono in quinta posizione, con l’8,3% dei voti.

Presi insieme, tutti i principali partiti anti-Brexit hanno ottenuto circa il 37% delle intenzioni di voto. Il partito Brexit e il suo progenitore UKIP, sono al 36,%. Il sondaggio ha avuto luogo con un campione di soli 1600 elettori e dunque potrebbe avere un margine d’errore elevato. A ciò si deve aggiungere l’elevato numero di elettori che non potranno partecipare al voto per il ritardo con cui si sono registrati, ritardo dovuto all’incertezza della partecipazione alle elezioni del Regno Unito. 

Insomma tutto fa presagire che la partecipazione al voto dei sudditi della Regina Elisabetta sarà una riedizione del referendum del 23 giugno 2016. La confusione e le incertezze di allora caratterizzeranno e influenzeranno anche il voto di queste elezioni. La speranza è che le frustrazioni questi tre anni non siano occorse invano e che i cittadini del Regno Unito abbiano capito la lezione della storia. Che vogliano con il loro voto dare un segnale nitido e chiaro della volontà di rimanere parte dell’Unione europea. 

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