L’utopia delle responsabilità condivise: salute, istruzione, sicurezza e giustizia oltre le divisioni

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Le grandi questioni di una nazione non appartengono a maggioranza o opposizione. Salute, istruzione, sicurezza e giustizia non dovrebbero essere terreno di conflitto politico, ma campi di responsabilità collettiva. Lo abbiamo visto in ogni emergenza recente: quando il sistema sanitario o la scuola cedono, non ne soffre una parte ma l’intero Paese

La salute come bene comune

La pandemia ha ricordato che la salute non è una vicenda privata ma un bene collettivo. Quando una persona si ammala, la perdita ricade sulla comunità, sull’economia, sulla coesione sociale.

In Italia i tempi d’attesa restano spesso lunghi. Ne nasce una frattura evidente: chi può permetterselo paga e accede subito alle cure, chi non può, resta bloccato in lista. Così si crea una medicina a due velocità, con rinunce e diagnosi tardive. La divaricazione è ancora più grave quando avviene dentro strutture pubbliche: stessi professionisti e apparecchiature, ma agende chiuse per il percorso convenzionato e aperture improvvise per quello a pagamento. Chiunque abbia provato a prenotare un esame lo sa: mesi di attesa, poi la stessa prestazione compare disponibile il giorno dopo, ma a pagamento. Un corto circuito che mina la fiducia.

Eppure non mancano i rimedi. Rimettere ordine significa introdurre agende uniche e trasparenti, fissare tempi massimi davvero verificabili, garantire che le priorità cliniche siano rispettate, mantenere una separazione netta tra attività pubblica e privata e, infine, rafforzare l’assistenza territoriale per alleggerire gli ospedali.

La giustizia di un sistema sanitario si misura infatti nella possibilità concreta di accedere alle prestazioni quando servono.

Ed è con lo stesso criterio che va considerata un’altra infrastruttura decisiva per il futuro: l’istruzione.

Istruzione: l’investimento dimenticato

Se la salute ci protegge, l’istruzione ci fa crescere. Entrare in una scuola al mattino non è solo un esercizio preparatorio: è già vita quotidiana. È in aula che si impara a pensare, a confrontarsi con idee diverse e a cambiare opinione quando ci si accorge che un argomento è più solido del proprio. Ma oggi il meccanismo è inceppato. L’accesso non è uguale per tutti, l’abbandono scolastico resta alto, la forbice Nord-Sud si allarga. Nel Mezzogiorno si studia con tenacia, ma poi si parte per laurearsi o lavorare altrove, e i territori più fragili si impoveriscono: meno laureati, più analfabetismo funzionale, meno reti culturali. Non è una colpa individuale: è un circuito vizioso di servizi ridotti, biblioteche scolastiche rare, laboratori vecchi, orientamento debole.

La fragilità riguarda anche il rapporto con le famiglie. Dove dovrebbe esserci alleanza, spesso cresce la delegittimazione dei docenti e ogni valutazione rischia di trasformarsi in contenzioso. A conti fatti, tuttavia, la scuola non può funzionare se l’autorità educativa viene erosa giorno dopo giorno.

A ciò si aggiunge un problema culturale: ci stiamo disabituando al pensiero critico. L’intelligenza artificiale, per esempio, può essere un acceleratore, non un produttore: se lo studente copia e incolla, la curiosità si spegne; se invece l’IA è guidata con intelligenza, può perfino stimolare dibattito in classe. Insomma, non è la tecnologia a fare la differenza, è la pedagogia.


E proprio mentre dovremmo rafforzare gli strumenti che insegnano a ragionare, continua a farsi strada l’idea che ciò che appare meno spendibile oggi possa essere sacrificato domani. Così capita di sentire voci che vorrebbero ridimensionare o perfino eliminare il latino e il greco, bollati come “lingue morte”, o di mettere in discussione persino lo studio di Dante, considerato da alcuni un retaggio inutile. È una prospettiva miope: proprio quelle discipline e quegli autori allenano alla logica, alla precisione, alla sensibilità al testo e al contesto, competenze che servono a tutti, dall’ingegnere al medico. Il quadro strutturale è ovviamente aggravato dalle risorse insufficienti.

Da anni investiamo meno della media europea per studente e per ateneo: classi troppo numerose, edifici fragili, carriere docenti poco attrattive, borse di studio inadeguate. Persino gli indirizzi migliori comportano costi indiretti che pesano sulle famiglie. Se l’ascensore sociale diventa a pagamento, smette di funzionare.

Che fare? Rimettere in rotta la scuola significa coniugare equità e opportunità: tempo pieno vero dove serve, biblioteche e laboratori aperti, tutoraggio personalizzato, orientamento serio, una didattica per competenze che includa retorica, logica, scrittura, metodo scientifico e un uso consapevole dell’IA. 

Ma non basta: la scuola vive anche della forza dei suoi insegnanti. Senza docenti autorevoli, motivati e sostenuti nella loro crescita professionale, ogni riforma resta incompiuta. Restituire loro dignità significa garantire formazione continua, criteri di valutazione trasparenti e condizioni di lavoro che rendano attrattiva la carriera.

E il risultato si vede: quando salute e istruzione funzionano insieme, una società non solo vive meglio, ma pensa meglio. Ed è proprio da qui che si misura la solidità di un patto civile. Ed è su questo stesso terreno che si apre la questione della sicurezza.

Sicurezza: libertà dal timore

La sicurezza non è questione di destra o di sinistra: è la differenza tra sentirsi tranquilli a prendere un autobus di sera o cambiare strada per paura. Se lo spazio pubblico è percepito come ostile, la libertà formale si dissolve nella pratica quotidiana.

Non servono slogan, ma politiche di fiducia. La retorica del controllo totale è un’illusione, mentre minimizzare il rischio è altrettanto irresponsabile. Ciò che serve davvero è costruire ambienti capaci di ridurre le occasioni di reato e di aumentare la fiducia reciproca. Anche l’urbanistica, in questo senso, è parte della sicurezza: luce dove serve, fermate presidiate, percorsi leggibili, piazze curate. Un luogo ben tenuto, infatti, trasmette l’idea che qualcuno se ne prenda cura, e questo basta spesso a scoraggiare l’impunità. Alla cura degli spazi va unita la prossimità delle istituzioni: polizie locali visibili, presenti sul territorio e capaci di dialogo e ascolto, sportelli per le vittime facilmente raggiungibili, protocolli rapidi contro violenza domestica e stalking. Questo perché, come si dice “prevenire è meglio che curare”. 

Non meno urgente è la sicurezza digitale. Tra truffe online, odio organizzato e cyberbullismo, spesso non si sa più come difendersi dai malintenzionati. Ecco perché non serve alimentare un allarme permanente, ma costruire strumenti concreti: alfabetizzazione digitale, maggiore responsabilità delle piattaforme e sistemi di segnalazione chiari e tracciabili. Solo così la rete diventa un luogo meno ostile e il timore lascia spazio alla fiducia.

Ed è proprio da qui che si arriva al nodo della giustizia.

La legge è ancora uguale per tutti?

La sicurezza è libertà di non avere paura, mentre la giustizia è la certezza che un processo non dipenda dal cognome o dal portafoglio. La Costituzione proclama l’uguaglianza davanti alla legge, ma chiunque abbia avuto a che fare con i tribunali sa che, a volte, la verità processuale non coincide con la verità dei fatti.

In questo quadro si inserisce anche un principio cardine, troppo spesso dimenticato: la presunzione d’innocenza. Deve valere non solo sulla carta, ma anche nel linguaggio quotidiano delle istituzioni e nella narrazione pubblica della giustizia.

Ed è qui che entra in gioco l’informazione. Un avviso di garanzia non è una condanna, ma l’inizio di un accertamento. Eppure, la comunicazione giudiziaria e il racconto mediatico sovente trasformano questo passaggio in un processo parallelo. Occorrerebbe maggiore sobrietà: le procure dovrebbero limitarsi a comunicare atti, i media a informare senza spettacolarizzare.

Dulcis in fundo, la giustizia non è fatta solo di codici e sentenze, ma di persone in carne e ossa. Le vittime chiedono ascolto, protezione e risarcimenti esigibili. Gli imputati chiedono che la loro sorte non dipenda dall’umore della piazza; la collettività ha bisogno di percorsi che responsabilizzino e riducano la recidiva. Ma è altrettanto fondamentale la certezza della pena.

Perché alla fine, una giustizia lenta e opaca non danneggia solo chi è coinvolto: brucia la fiducia, logora le risorse e allontana gli investimenti. Al contrario, processi rapidi e corretti, un linguaggio sobrio e un accesso reale alla tutela legale sono infrastrutture di sviluppo. Rendono prevedibili gli esiti, riducono l’arbitrio, riallineano merito e responsabilità.

E, come già accade per la sicurezza, anche qui la chiave sta nella coerenza tra ciò che si promette e ciò che davvero accade nello spazio pubblico.

Oltre il gioco a somma zero

Il tratto comune di queste quattro sfide è la loro natura non partigiana. Salute, istruzione, sicurezza e giustizia non appartengono a un governo o all’opposizione: appartengono alla comunità nazionale.

Quando i governi smontano ciò che i predecessori hanno costruito solo per contrapposizione, il Paese intero perde. La vera maturità democratica sta nel difendere insieme i beni comuni, lasciando al dibattito politico il resto.

La storia insegna che quando un Paese non difende insieme ciò che lo fonda, salute, cultura, sicurezza e giustizia, è destinato a consumarsi in guerre di superficie, mentre le fondamenta si sgretolano.

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