La Taranta di Mingozzi e il contributo dell’antropologia

La Taranta a Otranto

Il documentario di Mingozzi “La Taranta” si apre con le seguenti parole di Quasimodo sulla Puglia degli anni sessanta.

Questa è la terra di Puglia e del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine, dove l’uomo cammina sui lentischi e sulla creta. Avara è l’acqua a scendere anche dal cielo, gli animali battono con gli zoccoli un tempo che ha invisibili mutamenti. I colori sono bianchi, neri, ruggine. È terra di veleni animali e vegetali: qui esce nella calura il ragno della follia e dell’assenza, si insinua nel sangue di corpi delicati che conoscono solo il lavoro arido della terra, distruttore della minima pace del giorno

Questo lavoro fu il primo a trattare il tema del tarantismo, al quale, non a caso, partecipò anche De Martino: da queste poche frasi iniziali, infatti, emergono tutti i punti principali dello studio sull’argomento di questo importante antropologo italiano. 

La taranta nella tradizione pugliese

La descrizione della Puglia come terra della solitudine ricorda il carattere simbolico che De Martino attribuiva al tarantismo. Quest’ultimo non è altro che un orizzonte in cui vanno a convergere tutti i mali, tanto sotto forma di miseria economica, quanto culturale.

Così il rituale di liberazione della taranta che racchiude in sé la musica, la danza e il furore religioso, permette di dare un volto al male. Tutto questo avviene per mezzo di una comunicazione altamente simbolica. 

Il rituale della taranta – stigma etnico pugliese – assume un’importante funzione terapeutica nei confronti del caos, della miseria e della solitudine che in quegli anni dilagavano nel Mezzogiorno d’Italia. 

Il ruolo della religione

Il Salento è qui ripreso anche come terra della religione vista la presenza ricorrente di San Paolo. Nel documentario l’icona del Santo è tenuta in braccio da un bambino – l’essere più puro al mondo per antonomasia. La tarantata dialoga con l’immagine sacra, cercando di ottenere la grazia della guarigione. 

Questo rimanda all’idea di De Martino del tentativo da parte della Chiesa di cristianizzare le credenze popolari, in particolare con l’associazione del tarantismo a San Paolo

Gran parte del filmato, infatti, è ambientato nella chiesa di San Paolo a Galatina, dove storicamente il 28 giugno si riunivano le tarantate e le guarite.

Quello che emerge è la difficoltà nel distinguere il momento in cui interviene la psicosi – natura – da quello in cui ha inizio il rito – cultura.

La musica come rimedio

La Puglia, però, è soprattutto la terra della follia. Il veleno del ragno dà come primo sintomo la noia. A questo male si può rimediare soltanto con il ritmo della musica. È una lotta contro la tarantola, accompagnata da tre strumenti: violino, tamburello e fisarmonica, suonati da gente comune – un barbiere, un contadino e un becchino.

La tarantata diventa essa stessa il ragno. Lo imita, striscia, cammina carponi, si arrampica, fila la tela, salta e al tempo stesso lo calpesta col piede che danza. Le urla e la follia sono impressionanti e rendono bene l’originario significato del rito della taranta

Quando finiva il tempo del raccolto, le tarantate scomparivano. Così attraverso il simbolismo della musica e della danza, anno dopo anno il passato di dolore e i traumi delle tarantate venivano evocati e risolti in un equilibrio che durerà sino al nuovo tempo del rimorso (De Martino).

La taranta oggi

Se già ai tempi di Mingozzi, negli anni ’60, si stava vivendo l’ultimo tempo delle tarantate, al giorno d’oggi il tarantismo è ormai un lontano ricordo. L’attuale incapacità delle persone di poter attuare un trascendimento simbolico dei loro traumi rende il disagio dilagante. 

Del fenomeno del tarantismo, a cui oggi si attribuisce una valenza positiva – a differenza dell’epoca di Mingozzi -, si dovrebbe mantenere la sensibilità dell’immaginazione che ha la capacità di restituire l’efficacia simbolica dell’arte e la sua valenza terapeutica.

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