Juke Box: il gruppo della settimana – G come Genesis

Genesis primaPeter Gabriel (voce e flauto), Tony Banks (chiterre e tastiere) e Mike Rutherford (chitarre) cominciano la loro storia chiamata Genesis in un college britannico dove, nel 1969, danno vita al primo disco che, definire “da dimenticare”, è già un gran complimento.

«From Genesis to revolution» annovera canzoni praticamente da oratorio e altri pezzi melodrammatici, che vorrebbero far ricordare forse i primi Bee Gees; il tutto condito da una banalità impressionante.

Reset!

Diciamo allora che la vera storia chiamata Genesis inizia nel 1970, con un disco di nome “Trespass”, dove Banks e Rutherford cominciano ad aprire la vera strada al gruppo.

Brani lunghi e particolarmente intriganti come “Dusk”, “Looking for someone”, e “The knife” sono davvero di piacevole ascolto.

Arrivano Hackett e…..Phil Collins

Nel ’71 poi, la storia diventa leggenda. Arrivano Steve Hackett (chitarra) e Phil Collins (batteria e voce) e fin da subito il suono del gruppo ne acquista in spessore. La crescita di Peter Gabriel è palese e la sua vena compositiva si scatena. «Nursery crime» ne è la prova, dove tracce come «The musical box» e «The fountain of Salmacif» emergono, dando alla band un’aurea di universo più che di gruppo.

Da una meraviglia all’altra: “Foxtrot” del ’72 è una scatola musicale talmente ricca che vien voglia di ascoltarla al solo scriverne. Invenzioni sonore e liriche da standing ovation con arpeggi da brividi, a consacrazione di un quintetto davvero di assi. Memorabile l’intro di «Watcher of the skies»; affascinante e sgangherata allo stesso tempo la lunga «Supper’s ready»«Genesis live» (’73) è un documento di quanto la band possegga nelle sue corde, capacità strumentali assolutamente fuori dal comune.

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Peccato, però  perché qualcosa si rompe …

…..probabilmente cinque galli in un pollaio non possono durare a lungo.

Quando esce «Selling England by the pound», i fans si trovano davanti ad un lavoro diverso, frutto delle prime tensioni sorte tra i musicisti ed il crescente egocentrismo di Gabriel che, se da un lato contribuisce al meglio del disco («Dancing with the moonlit knight» più i testi di «I know what I like», «The cinema show», «Firth of fifth»), dall’altro si produce nel delirio rap della pesante “The battle of epping forest”.

Il doppio LP del ’74 «The lamb lies down on Broadway» è un’opera rock difficilissima da comprendere, dove ancora una volta l’egocentrismo di Gabriel quasi contribuisce a rovinare non solo il disco, ma anche i rapporti con gli altri quattro. Sembra quasi che Gabriel voglia a tutti i costi riempire dei suoi versi ogni brano, inondando di testi ogni parte strumentale del disco ed irritando non poco il resto della band. E anche se alcuni passaggi elettronici possono sembrare anni luce avanti rispetto a quel particolare momento, il “troppo” non sempre risulta essere apprezzato.

E’ l’epilogo. Gabriel è stanco, non approva la musica che gli altri vorrebbero fare e decide di mollare.

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Il disco successivo è quello che non ti aspetti

Il gruppo reagisce con un LP delicato e semplicemente affascinante: «A trick of the tail» (1976). «Squonk», «Dance on a volcano» , «Entangled», «Mad man moon» esaltano le vocalizzazioni e la tenue voce di Collins che ricorda, non poco, quella di colui che ha abbandonato. Però è innegabile che uno scossone il gruppo l’ha subìto e «Wind and wuthering» (’77) e «And then there were  three» (’78) lo dimostrano. Nel primo dei due citati c’è forse un timido tentativo di rifare il vincente “Foxtrot”, seppure con scarsissimi risultati (degna di nota solo «Blood on the rooftoops»).

Il secondo segna, invece, anche l’abbandono di Hackett, che preferisce tentare la strada da solista. Il disco è l’emblematica ammissione che il gruppo (ormai divenuto un trio) è in crisi d’identità profonda, dove tolte «Say it’s al right Joe» e «Follow you follow me», c’è poco o niente da segnalare. Eppure, quanto rimane dei Genesis, ha ancora qualcosa da dire, prima che l’inevitabile parabola discendente avvii il suo corso.Negli anni ’80 e ’81, infatti, Phil Collins (sempre più leader incontrastato dei Genesis rimasti) & co sfornano 2 LP interessanti seppur ben diversi dal loro pass ato.

«Duke» (1980) è un interessante tentativo di mostrare ai fan (ma non solo a loro) quanto la band fosse in grado di aggiornare stile e linguaggio senza voltare le spalle ai gusti dei fedelissimi. Questi ultimi apprezzano di buon grado il tentativo, riconoscendo alla band di aver confezionato un prodotto dai toni musicali semplici, ma estremamente intriganti («Behind the lines», e «Turn it on again») con un’importante iniezione di elettronica («Duchess», «Man of our times») e tanto, a volte forse anche troppo, pop («Misunderstanding», «Please don’t ask»).

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E poi c’è “Abacab” (1981), ad ulteriore conferma di quanto ormai Collins (che si appresta sempre più a spiccare il volo da solista) sia in perfetta sintonia con il techno pop tanto in auge nei primi anni 80, seppure (e qui sta la grande abilità) egli non tradisca le radicate architetture musicali dei Genesis.

E’ un disco dai testi lontanissimi rispetto ai virtuosismi di Gabriel, nel quale troviamo lunghe tracce di elettro pop/rock (“Abacab”), brani funky che ricordano gli Earth Wind & Fire (“No reply at all”); ma anche l’ultimo grande pezzo composto da Tony Banks prima di abbandonare a sua volta il gruppo (“Me and Sarah Jane”).

Decennio ’82-’92

Il decennio regala ai fan della storica band britannica, ancora dischi e show, anche se con sempre meno sostanza. «Three sides live» è un doppio live che sicuramente non arriva. Più attenzione agli ultimi fasti che agli esordi; più pop che le indimenticate architetture musicali. In altre parole c’è più da ballare che da ascoltare e meditare. E sinceramente non so a quanti, questo, sia piaciuto.

Altro giro altro tentativo quello effettuato con “Genesis” (1983), dove si tenta il rifacimento di canzoni come “Mama”, in questo caso letteralmente violentata da un’aggressione elettronica fin troppo marcata. Ora sì che la si avverte la parabola discendente prima citata. E’ come se la toccassimo con mano dapprima in “Invisible touch” (’86), lavoro in cui i Genesis sembrano essere diventati il gruppo leader di un pop sintetico in cui Phil Collins e gli ultimi due [fin troppo silenziosi] residui di una band storica, quasi non si riconoscono.

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Canzoncine per pubblicità o sigle di programmi TV (“Tonight, tonight, tonight”, “Invisible touch”) e nulla più. Forse si distingue solo “Domino”, che tra l’altro è l’unica traccia firmata non da Collins. E poi nel ’91 “We can’t dance”. E’ un disco dove non si trovano né voglia né tentativo di sperimentare.

E’ pop puro, ma è pop di una semplicità quasi sconcertante. “Jesus he knows me”, “No son of mine”, “I can’t dance” … scegliet, c’è l’imbarazzo della scelta!

Una fine ingloriosa

Dopo un altro concerto uscito nel ’92 che suddivide i brani corti da quelli lunghi della loro storia (“Live – The way we walk: the shorts / the longs”), Collins, che ormai vive a tutti gli effetti da solista, abbandona ufficialmente. E’ la fine.

Gli ultimi 2 rimasti tentano un colpo di coda nel ’97 (“Calling all stations), ma è un flop clamoroso al quale Rutherford e Banks hanno almeno il buongusto di non replicare.

 

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